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anche italiane: il termometro segnala febbre. Arriva la rivoluzione?

La parola "rivoluzione" suona stonata se pronunciate nelle stanze felpate del potere finanziario, eppure la prospettiva pare quanto mai concreta in Italia tra conti che faticano a quadrare e la crescente pressione di famiglie e imprese, che lamentano le difficoltà di accesso al credito.

Trimestrali preoccupanti

Partiamo dai numeri. Nel corso degli ultimi giorni sono stati pubblicati i dati trimestrali di tutte le banche di medie e grandi dimensioni della Penisola: Unicredit ha chiuso i primi nove mesi dell'anno ricavi in crescita del 2% a 19,5 miliardi di euro, per merito delle partecipazioni nell'Est Europa. Per quanto concerne l'Italia, è emerso il deterioramento della qualità del credito, che ha spinto la banca di Piazza Cordusio ad aumentare del 10,9% gli accantonamenti. Il risultato è un rosso delle attività in patria a quota 71 milioni di euro. Peggio vanno le cose in casa Intesa SanPaolo, con un peggioramento dell'utile netto sui nove mesi nella misura del 21,4% rispetto allo stesso periodo del 2011. Nonostante ciò, l'amministratore delegato di Ca' de Sass Enrico Cucchiani ha assicurato che il dividendo non sarà inferiore a quello del 2011.

Intanto continua a sprofondare Monte dei Paschi di Siena, che tra gennaio e settembre ha accumulato una perdita di 1,66 miliardi, sulla quale pesano svalutazioni per 1,5 miliardi.

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Non è andata molto meglio al Banco Popolare, che ha registrato sui nove mesi una perdita netta di 53,8 milioni rispetto all'utile di 321,8 milioni dello stesso periodo dello scorso anno, mentre ha superato le attese Ubi Banca, chiudendoo i primi nove mesi dell'anno con un utile netto di 222,8 milioni di euro (+21,9%).

Un sistema fragile…

Il quadro che emerge complessivamente è di un sistema finanziario debole, che rischia di soccombere nel mercato globalizzato. Se a questo si aggiunge che le prospettive economiche per l'Italia sono improntate (nel migliore dei casi) alla stagnazione, non c'è da stare allegri. Le normative internazionali impongono un progressivo rafforzamento dei requisiti patrimoniali delle istituzioni finanziarie, per cui — permanendo il clima di debolezza — non è esclusa la necessità di ricorrere al mercato per aumentale il capitale, in modo da avere spalle abbastanza robuste per reagire a eventuali, nuove crisi sistemiche. Solo che l'obiettivo è facile da esporre, ma difficile da centrare: i principali azionisti delle banche italiane — fondazioni e imprenditori delle principali aziende della Penisola — in molti casi versano già in condizioni difficili. Per cui appare difficile che possano rimettere mano al portafoglio per sostenere le banche partecipate.

…a rischio scalata

I mercati finanziari sono lo specchio del pessimismo diffuso, tanto che le principali banche italiane quotano su multipli eccezionalmente bassi: all'incirca un terzo del valore di libro (cioè il valore dei beni e delle partecipazioni iscritte a bilancio), a fronte di una media storica tre o quattro volte superiore.

In queste condizioni è facile ipotizzare un attacco da parte di istituzioni finanziarie straniere, a cominciare da quelle tedesche (si è fatto il nome di Deutsche Bank tra le più interessate a crescere in Italia), che possono contare su tassi di finanziamento eccezionalmente bassi in patria.

Il risiko in vista

Per fronteggiare questo rischio, nei giorni scorsi è stata ipotizzata una fusione tra le due principali banche italiane, Intesa SanPaolo e Unicredit: una mossa dettata dalla volontà di far quadrato contro possibili offerte straniere, che a cascata inciderebbero su tutto il sistema del potere finanziario italiano, da Generali e Mediobanca (legate alle prime due da intrecci azionari e soci comuni). Solo che si è scoperto che tra sovrapposizioni di business e limiti antitrust, l'operazione avrebbe avuto poche possibilità di successo. Da qui la smentita di tutti gli interessati all'operazione, fino alla riapertura a sorpresa dell'ad di Unicredit, Federico Ghizzoni, che non ha escluso la possibilità di spin-off della divisione italiana. Tradotto in pratica, significherebbe dividere in due la società e mettere sul mercato Unicredit Italia. Chi potrebbe acquistarla? Come si è visto i soldi in Italia scarseggiano, per cui è verosimile pensare a uno sbocco estero. Si tornerebbe così al problema già esposto: uno snodo strategico italiano rischia di finire in mani straniere, che si sentirebbero sicuramente meno vincolate nel prendere eventuali decisioni su tagli del personale ed erogazioni del credito. Senza trascurare le ricadute su tutte le società partecipate.