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Disoccupazione giovanile: quando i dati non dicono tutta la verità

Regling (Esm): Ue deve gestire crisi senza aiuti da Fmi

Le valutazioni paneconomiche alle quali la crisi ci ha abituati, tracimano persino nelle tracce dei temi di maturità, accanto alla letteratura e all’ecologia, tanta è l'importanza che esse assumono nella vita quotidiana. Da Belfast i Capi di Stato del G8 fanno sapere che “sono necessarie misure urgenti e specifiche per creare posti di lavoro di qualità, in particolare per i giovani e per i disoccupati a lungo termine”.

È di oggi la notizia secondo la quale, molto probabilmente, alla fine del 2013 si toccheranno gli 1,6 milioni di posti di lavoro persi dall’inizio della crisi, numero gigantesco che non lascia scampo a nessuna “sottocategoria”: né al lavoro dipendente, né a quello indipendente, non ai giovani, non agli over 40. La crisi occupazionale riguarda tutti e gli economisti più esperti sottolineano come non sia un problema distinto al quale dedicare un trattamento speciale, ma una delle facce di una crisi condivisa.

Più che una questione economica, la disoccupazione rischia di diventare una questione politica, il futuro campo sul quale giocare la partita del consenso politico, non tanto dal punto di vista demografico (l’Ue diventa anagraficamente più vecchia…), quanto dal punto di vista sociale (con una precarizzazione che, ormai, è tracimata nella generazione dei quarantenni). Il vertice sulla disoccupazione giovanile tenutosi venerdì 14 giugno fra i ministri dell’economia e del lavoro di Italia, Spagna, Francia e Germania è sintomatico di una maggiore attenzione alla questione.

Prevenzione? Quello che sta accadendo nelle piazze di Turchia e Brasile, in due Paesi dall’economia in crescita, fa riflettere: anche nelle economie apparentemente più “sane” non esiste mai la garanzia assoluta della tenuta del patto sociale. A scendere in piazza sono i giovani. A usare i social media che catalizzano le proteste sono i giovani. I policymaker devono essersi accorti che l’universo con cui trattare è quello delle nuove generazioni.

Ecco allora che la disoccupazione giovanile diventa di colpo la priorità di una priorità, quella del lavoro. Dai ministri Fabrizio Saccomanni ed Enrico Giovannini al premier Enrico Letta, nelle dichiarazioni programmatiche nessuno dimentica il tema dei giovani, vero “trend topic” del Governo delle larghe intese.

Qualcuno, però, inizia a sollevare dei dubbi, a dire che i tassi di disoccupazione vengano sempre citati nudi e crudi, senza farne, come dovrebbe essere, una tara.

La fascia d’età presa in considerazione, quella che va dai 15 ai 24 anni, è, per certi versi, anacronistica: gli adolescenti (16-19 anni) vanno ancora a scuola e non sono qualificati per trovare un lavoro regolare ed “emerso”, i giovani fra i 20 e i 24 anni, invece, sono i veri disoccupati, quelli che hanno concluso le superiori e iniziano a cercare un’occupazione senza volere frequentare l’università. 

Ma c’è un altro dato da tenere in considerazione: la partecipazione al mercato del lavoro da parte degli adolescenti che è solo al 10% nella maggior parte dell’Europa, mentre in alcuni Paesi come Olanda e Stati Uniti raggiunge il 50%.

Per molti esperti di mercato il tasso di disoccupazione è un indicatore potenzialmente fuorviante poiché un tasso del 50% non implica che la metà della popolazione sia disoccupata. Un valore veramente credibile è, invece, il rapporto di disoccupazione che mette in relazione la percentuale dei disoccupati con la popolazione di riferimento. Soltanto il 9% degli adolescenti fa parte del mercato del lavoro, ma sono i due terzi di questa percentuale a non riuscire a trovare il lavoro: il rapporto di disoccupazione è quindi del 6% è questa la vera cifra di quelli che non trovano lavoro. Nelle statistiche, però, si gioca al rialzo. Manovre forti richiedono forti moventi e altrettanto forti mezzi di persuasione e molto spesso, per citare una frase attribuita a Benjamin Disraeli, primo ministro inglese sotto la Regina Vittoria, le statistiche sono come i lampioni per gli ubriachi, “non per la luce ma come sostegno”. Con una grande differenza: un secolo e mezzo dopo con un tweet e un po’ di fact checking chiunque può accendere la luce.