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La crisi? Tutta colpa della “stupidità funzionale”

Contravvenendo alla favola di Esopo che da oltre due millenni contrabbanda come conveniente la condotta lavorativa della formica nei confronti di quella della cicala, uno studio condotto dalla società di consulenza e di collocamento statunitense Leadership IQ sembra ribaltare, su una prospettiva di breve termine, le più lapalissiane teorie sull’efficienza lavorativa.

Secondo questo studio i cosiddetti “low performer” sarebbero gli impiegati più soddisfatti all’interno di un’azienda, i più felici fra le mura domestiche, i meno stressati e i più propensi a parlare bene della propria azienda a potenziali clienti, consumatori e futuri colleghi.

Perché? Essendo considerati dei low performer, a loro vengono attribuiti i compiti più facili, dunque con maggiore possibilità di successo. Inoltre, proprio in virtù della scarsa considerazione di cui godono, è paradossalmente più facile che vengano elogiati da dirigenti e superiori.

Al contrario i dipendenti più devoti e capaci sono maggiormente stressati e si sentono sottovalutati, questo perché verso di loro le aspettative sono altissime. Su un periodo di medio-lungo termine la sclerotizzazione di questa situazione (con l’incapacità della dirigenza di gratificare anche i più meritevoli)  può portare a risultati estremamente negativi per le aziende, per esempio con la “fuga dei cervelli” di coloro che si sentono meno valorizzati.

Mats Alvedsson, professore della scuola di Economia e Management dell’Università di Lund, ha proposto recentemente una teoria secondo la quale il mondo dell’impresa sarebbe vittima di “una stupidità strutturale” che renderebbe i dipendenti di organizzazioni e aziende incapaci di “mettere in discussione le decisioni, le strutture e visioni”.

Nello studio, condotto da Alvesson insieme al collega André Spicer e pubblicato sul Journal of Management Studies, viene esposta la teoria della “stupidità funzionale” che, paradossalmente, aumenterebbe la produttività di una organizzazione. Come? 

Non ponendosi criticamente davanti ai compiti loro affidati, i lavoratori ci si adoperano con entusiasmo e senza sollevare questioni: la produzione è teoricamente più lineare ma il rovescio della medaglia è che ci possono essere problemi causati proprio da questa mancanza di spirito critico.

Alcuni dei crash finanziari degli ultimi anni, spiega Alvesson, potrebbero essere stati causati proprio da questa acriticità. Ciò che a breve termine può far scorrere meglio gli “ingranaggi” della macchina organizzativa, può diventare, invece, un ostacolo sul lungo termine. Secondo i ricercatori alcuni settori, specialmente quelli che vendono beni immateriali o prodotti di marca, come la moda, le società di consulenza e i mass media, sarebbero maggiormente esposti alla stupidità strutturale.

“La stupidità funzionale è preminente nelle economie che sono dominate tramite una persuasione che utilizza immagini e la manipolazione simbolica” spiega Mats Alvesson. Insomma più pensiamo di essere intelligenti e consapevoli, maggiori sono i rischi di essere vittime della stupidità funzionale. E anche le tecnologie che ci alleviano l’atavica fatica di ricordare danno il loro contributo. Qualche anno fa Clay Shirky sconvolse il dibattito sulle nuove tecnologie con il suo saggio Internet ci rende stupidi?, sottolineando ciò che la Rete sottraeva alle funzioni cognitive, più che magnificare ciò che aggiungeva alla conoscenza di ognuno.

Forse, invece, di perdersi nei massimi sistemi, l’autocritica delle stanze dei bottoni dell’economia mondiale dovrebbe fare analisi ben più pragmatiche e interrogarsi su cause molto più tangibili. Abbiamo dato troppe cose come scontate? Abbiamo sopravvalutato la nostra intelligenza compiendo scelte stupide?