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Lavorare meno per lavorare meglio

Lavorare meno per lavorare meglio

Qualche settimana fa The Economist ha preso in esame il più recente rapporto Ocse su lavoro e produttività sottolineando come, nonostante un calo del monte ore lavorate nel mondo, si sia ben lontani da quanto filosofi ed economisti sostenevano negli anni Trenta.

Bertrand Russell scriveva, nel suo saggio “In Praise of Idleness” (Elogio dell’ozio) del 1932, che in una società gestita al meglio delle proprie possibilità la gente avrebbe lavorato quattro ore. Il filosofo inglese ipotizzava in tempi brevi una società del part time, una giornata lavorativa che avrebbe dato diritto a ogni uomo di usufruire delle “necessità e delle comodità elementari della vita”. Un sesto della giornata sarebbe stato dedicato all’attività professionale e il resto alle proprie passioni: la scienza, la pittura, la lettura e la scrittura.

Allo stesso modo la pensava anche l’economista John Maynard Keynes che nel saggio “Economic possibilities for our grandchildren” (Le possibilità economiche dei nostri nipoti) del 1930 ipotizzava addirittura un impiego settimanale di 15 ore nel 2030. È interessante rilevare come simili speculazioni nascessero in un contesto di grande crisi economica, molto simile all’attuale, con gli Stati Uniti d’America nel bel mezzo della Grande Depressione scatenata dal crollo di Wall Street dell’ottobre 1929.

Ottant’anni dopo le profezie dei due grandi pensatori britannici sembrano essere lungi dal realizzarsi. Il part time è sempre più subito che scelto e, molto spesso, non garantisce l’autosostentamento.

Secondo gli ultimi dati Ocse (2012) si lavora meno rispetto al 1990, solamente in 2 dei 25 Paesi presi in esame nel confronto sono aumentate le ore di lavoro: Svezia e Israele. La tendenza alla diminuzione delle ore lavorative c’è ma è davvero irrisoria. L’unico Paese che negli ultimi vent’anni ha ridotto drasticamente le ore lavorative portandole dalle 2000 del 1990 alle 1529 del 2012 è l’Irlanda, ma, vista la situazione economica in cui versa l’“isola verde”, appare davvero difficile leggere questa contrazione del 25% come un dato positivo.

Sempre secondo l’Ocse il Paese in cui si lavora di più è il Messico dove le ore lavorative medie sono 2226. Seguono la Corea del Sud (dato 2011) con 2090 ore e la Grecia con 2034 ore. Già, proprio la Grecia, il paese dove la crisi ha colpito più duramente: chi lavora è occupato più ore per riuscire a sopravvivere, questa è l’unica spiegazione plausibile.

Uno degli effetti collaterali della crisi è la radicalizzazione degli estremi: da una parte i disoccupati, dall’altra lavoratori costretti a diventare workaholic in un contesto di carenza occupazionale, in cui chi lavora è disposto a sacrifici che sarebbero stati impensabili negli anni pre-crisi.

Secondo il Financial Times stanno spuntando come funghi in tutto il mondo i gruppi dei maniaci del lavoro anonimi, i workaholic che chiedono aiuto perché non sanno o non possono smettere di lavorare. La Bank of America quest’estate ha dovuto affrontare dure critiche per il decesso a causa di stress da lavoro di una stagista.

Ma che rapporto c’è fra ore lavorative e produttività? L’analisi Ocse affronta l’argomento anche sotto il profilo qualitativo e rileva una curva in forte discesa nel rapporto fra ore lavorative e Pil per ora: più alto è il numero delle ore annuali dedicate alla propria attività professionale e minore è la produttività.

La Germania con le sue 1397 sembrerebbe un Paese di scansafatiche al cospetto della Grecia che supera le 2000 ore. Eppure la produttività dei tedeschi è del 70% superiore alla Grecia. In Germania, dunque, si lavora il 30% in meno, ma quel tempo è speso meglio e “neutralizza” il numero di ore decisamente inferiore trascorso al lavoro.

Il vecchio adagio “lavorare meno, lavorare tutti” continua a essere soltanto frase programmatica e, da cinque anni a questa parte, un’utopia sempre più distante. Eppure, dati alla mano, potrebbe essere la ricetta per il rilancio della produttività, nella sua versione riveduta e corretta: “lavorare meno, lavorare tutti, lavorare meglio”. Bello sarebbe se diventasse paradigma di una nuova politica e non più soltanto slogan di partiti e sindacati a caccia del consenso.