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Obsolescenza programmata: quando i prodotti sono fatti per non durare

Come il consumatore può difendersi dall'obsolescenza programmata dei beni: serve anche la politica

Obsolescenza (Fotolia)

Se atterrisce Serge Latouche, l’economista e teorico della decrescita felice che ne parla nel suo ultimo saggio, figuriamoci il cittadino medio, sempre più in crisi di liquidità e costretto a ripiegare sul “good enough”: l’obsolescenza programmata è l’ultimo spauracchio dell’egemonia consumista. Un sistema pianificato, un insieme di tecniche con cui il produttore di beni può decidere deliberatamente di ridurre la durata o l’uso di un prodotto.

E il fine si spiega con facilità: aumentare il tasso di sostituzione e spingere il consumatore a comprare. Ed ecco che oggetti con un alto coefficiente di tecnologia, si rompono proprio allo scadere della garanzia, lasciando il consumatore interdetto e in preda del più canonico dei dilemmi: riparare, perdendo tempo e denaro, o passare alla sostituzione? Un fenomeno che parte da lontano se è vero che già nel ’24 il cartello dei produttori delle lampadine stabilì di ridurne la vita da 2.500 a 1.000 ore. Il tema è attuale e anche molto sentito in Europa, come dimostrano Germania e Francia. Sarà il merito di avere ancora un’ala verde in Parlamento? Può darsi.

Come dimostra infatti uno studio commissionato dal gruppo parlamentare dei Verdi tedeschi, il fenomeno dell’ obsolescenza programmata è spiacevole per i consumatori ma non solo per motivi etici. Secondo lo studio di Schridde e Kreis, la furbetta scelta delle case di produzione per tenere sempre vivo il mercato, costerebbe ai consumatori teutonici circa 100 miliardi l’anno.

L’aspettativa di vita di un prodotto, quindi, è di 10 volte inferiore a quella di 40 anni fa, quando un elettrodomestico ci faceva compagnia per 20-30 anni. Non manca il parere contrario di chi pensa che una pratica simile col tempo sarebbe controproducente per i produttori stessi, che alla lunga perderebbero fette di utenza. Tuttavia, c’è chi tenta di correre ai ripari, come il gruppo parlamentare ecologista francese che ha presentato al Senato un disegno di legge per stanare un fenomeno che alimenta il consumo ma attraverso un meccanismo che verte sul dolo.

Come definire altrimenti, i sistemi che generano l’obsolescenza programmata? Si va dalle incompatibilità sofisticate, quelle di software, all’introduzione di elementi fragili, deboli o incoerenti, o alla mirata impossibilità di sostituire batterie e pezzi di ricambio.

Il rischio di una mancata regolamentazione in merito, come propone invece il testo francese – che mira a prolungare il periodo legale di garanzia dei prodotti, a imporre per l'azienda I'obbligo di  fornitura di ricambi necessari per la riparazione di un prodotto per una decade, a rendere disponibili le istruzioni di riparazione- farebbe balenare l’idea che anche allo Stato faccia comodo un modello simile, per non entrare in rotta di collisione con le aziende e i produttori.

Non si tratta di rifugiarsi in un modello statalista che decide anche quanto debba durare un prodotto, ma di chiarire, anche in una fase storica ed economica delicatissima, a quale modello economico si vuole guardare. E se privilegiare quello che impone vita, nascita, morte e ricambio dei prodotti, o quello che mira a produrre meno rifiuti, favorire l’economia locale, sprecare meno risorse.

Le industrie soffriranno? Può darsi, ma anche avvantaggiare un sistema che mette in crisi le imprese che operano nel segmento della riparazione dei beni di consumo, non è una mossa geniale al tempo della grande depressione attuale.