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Parlamento, niente tagli ai ricchi dipendenti

“Chiederemo sacrifici anche ai dipendenti, perché qui ci sono stipendi molto alti, faremo tutto con la collaborazione dei sindacati”. Questo era il proclama di Laura Boldrini, presidente della Camera, che il 19 marzo scorso, con l’appoggio del presidente del Senato, Piero Grasso, sembrava intenzionata a ridimensionare i compensi da nababbo di chi ha la fortuna di lavorare a Montecitorio. Tre mesi dopo? Non cambierà quasi niente. I mille e cinquecento dipendenti delle Camere - tra stenografi, addetti, autisti e barbieri - continueranno a guadagnare cifre record pesando sul bilancio dello Stato per circa 238 milioni di euro all’anno.

Si fa presto a parlare di tagli, sacrifici, spending review eccetera eccetera. La verità è che a stringere la cinghia sono sempre e solo i cittadini. Sì perché alla Camera dei deputati un semplice stenografo arriva ad intascarsi la cifra mostruosa di 259mila euro lordi all’anno. Senza parlare di un commesso che si deve accontentare, si fa per dire, di 8mila euro netti mensili. Un’esagerazione. Erano tutti d’accordo nel riconoscerlo appena si è insidiato il nuovo governo. Pronti via e le manovre di riduzione delle buste paga sono partite. Nei giorni scorsi, perciò, si è giunti ad un incontro tra i sindacati del personale e Marina Sereni, vicepresidente piddina di Montecitorio che detiene il dossier sulla riduzione dei costi. Il testo partorito dall’incontro è zeppo di buoni propositi, ma di concreto, almeno per ora, pare ci sia ben poco. Lo ha pubblicato L’Espresso e in un lungo preambolo la Sereni spiega come il suo “Comitato ha lavorato intensamente” dal momento che c’è “la necessità di riformare secondo i principi di maggiore rigore finanziario un sistema retributivo che appare, nei difficili tempi che stiamo vivendo, ormai non più integralmente difendibile”. Fin qui, condivisibile, ma proseguendo si specifica che “è opinione del Comitato che non si possa vivere di solo rigore e di soli tagli”, anche perché in Parlamento “da troppo tempo ormai si deve convivere con un contesto di continua emergenza che non consente di svolgere serenamente il proprio lavoro”.

Ammesso che ci sia questa emergenza nel Palazzo, figuriamoci come se la passa il resto del Paese. Quindi, perché ridurre i costi? Si tratta di “un’esigenza di tipo politico chiaramente rappresentata in seno al Comitato”. Un’ipotesi sarebbe quella di ridurre della metà le indennità. Ce ne sono una sfilza: quelle “di funzione”, “contrattuali”, “di rischio”, “meccanografiche”, fino a quelle di “immissione dati” che così come sono attualmente “potranno essere mantenute solo a fronte di specifiche ragioni funzionali”. Francamente arduo comprendere quali possano essere. Ad ogni modo, le indennità costano in tutto 15 milioni di euro e anche un loro dimezzamento farebbe scendere la spesa annuale da 238 a 231 milioni, qualcosa come il 3 per cento in meno. Inezie. Anche perché oltre alla busta paga invidiabile, i lavoratori assunti alle Camere hanno diritto a più giorni di ferie rispetto ai comuni impiegati. Il sistema di accumulo dei congedi si duplica con il passare degli anni; aumentano così tanto che diventa praticamente impossibile riuscire a goderne durante l’attività lavorativa. Ecco quindi un’altra idea. Sommarli ai mesi che separano dalla pensione, per finire il servizio prima. Un altro schiaffo ai tanti esodati che dopo la riforma Fornero hanno visto drammaticamente allontanarsi il fatidico momento del ritiro.

I veri tagli, però, potrebbero toccare ai nuovi assunti. Tra le opzioni al vaglio c’è quella di ridurre del 20 per cento la quota dei compensi futuri rispetto a quelli in vigore. Tutto, però, è rimandato a dopo le vacanze estive. Perché ci sia un accordo su questo aspetto, serve il via libera anche di Palazzo Madama. E se è vero che pure i senatori si sono espressi favorevolmente per ritoccare al ribasso le spese degli stipendi, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. D’agosto, in questo caso.