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Pensioni, come funziona il sistema in Italia

Inps (Fotolia)

Sociale, di invalidità, di reversibilità, di anzianità e di vecchiaia. O ancora calcolo retributivo e contributivo. Se nel leggere queste parole siete già in confusione e sentite salire un istintivo senso di panico, non vi preoccupate. Siete tra i molti italiani che non sanno nulla o quasi delle pensioni. O almeno appartenete al gruppo di coloro che non sono riusciti a seguire tutte le modifiche che il settore previdenziale ha subito nel corso degli anni. Allora è giunto il momento di fare un minimo di chiarezza, in particolare su come funziona attualmente il sistema pensionistico in Italia.

Nel nostro Paese esistono diversi tipi di pensione: la pensione sociale, erogata alle persone anziane prive di reddito, quella di invalidità, per le persone con un riconosciuto grado di invalidità psicofisica e quella di reversibilità, che passa da un coniuge all’altro e, in casi particolari, dal genitore al figlio al sopraggiungere della morte dell’uno. Finora i due criteri di funzionamento del sistema erano la pensione di anzianità e quella di vecchiaia, entrambe radicalmente modificate dalla recente riforma del Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Elsa Fornero. Dal 1° gennaio di quest’anno, infatti, la prima, che si può ottenere al raggiungimento di un determinato numero di anni di contribuzione prima dell’età pensionabile, non esiste più ed è stata sostituita dalla pensione anticipata. In sostanza non bastano più i 40 anni di servizio, ma dal 2012 ce ne vogliono 42 e un mese per gli uomini e 41 e un mese per le donne. Soglie destinate a salire di un mese nel 2013 e nel 2014.
La pensione anticipata viene disincentivata attraverso la riduzione dell’1 per cento sulle anzianità contributive maturate prima del 2012, se viene richiesta prima dei 62 anni d'età e la riduzione del 2 per cento, se viene richiesta prima dei 60 anni d’età. Con le attuali regole scompaiono anche il meccanismo delle “quote”, che sommava l’età anagrafica e contributiva e quello della “finestra mobile”, cioè l'attesa di altri 12 mesi al raggiungimento dei requisiti della pensione. In questo senso, con la riforma Fornero, potranno andare in pensione a 64 anni solo un dipendente privato con 35 anni di contributi, che con il vecchio sistema delle “quote” avrebbe raggiunto i requisiti il 31 dicembre 2012 (quota 96 sommando gli anni di anzianità e l'età anagrafica) e una lavoratrice del settore privato che, sempre entro il 31 dicembre 2012, ha 20 anni di contributi e 60 anni d’età.

Anche la pensione di vecchiaia, che si può ottenere al raggiungimento di una determinata età anagrafica, ha subito recentissime modifiche. Già dal 2012, infatti, gli uomini dovranno raggiungere i 66 anni, un immediato innalzamento del limite di un anno rispetto al passato. Per le donne, invece, c’è una distinzione. Se lavoratrici dipendenti da quest’anno andranno in pensione a 62 anni, se autonome a 63 anni e 6 mesi. Questa soglia progressivamente aumenterà negli anni fino alla completa equiparazione ai 66 anni degli uomini nel 2018. Fanno eccezione le dipendenti donne del settore pubblico iscritte a fondi esclusivi per le quali la pensione a 66 anni è scattata già dal 1° gennaio 2012. In tutti i casi è necessario avere un’anzianità contributiva di almeno 20 anni. E nel prossimo futuro la situazione potrebbe cambiare ulteriormente. Grazie al principio dell’adeguamento dell’età pensionabile all’allungamento delle aspettative di vita è già sicuro che dal 2022 si andrà in pensione a 67 anni. La soglia, infatti, verrà adeguata all’aumento della vita media in base ai date forniti dall’Istat con cadenza triennale.

Scopri come viene effettuato ora il calcolo della pensione.



La riforma Fornero ha cambiato anche il metodo di calcolo della pensione. Dal 1° gennaio 2012 tutti i lavoratori passano al contributivo e abbandonano il retributivo. Qual è la differenza? Il metodo ormai messo da parte stabiliva l’importo dell’assegno previdenziale sulla media dei redditi degli ultimi 10 anni di lavoro per i dipendenti e degli ultimi 15 anni di lavoro per gli autonomi nella misura del 2 per cento di questa media per ogni anno di contribuzione. Se, per esempio, un lavoratore aveva un reddito medio annuo negli ultimi 10 anni della sua attività di 50mila euro, con 40 anni di contribuzione, aveva diritto a una pensione di 40mila.

Con il metodo contributivo, invece, l’importo della pensione viene calcolato sui contributi effettivamente versati nel corso della vita lavorativa. C’è poi una rivalutazione di questo valore in base all’indice Istat delle variazioni quinquennali del Pil e una moltiplicazione per un “coefficiente di trasformazione” variabile, in base all’età del lavoratore al momento della pensione. Il problema principale è proprio su quest’ultimo punto. I coefficienti per il triennio 2013-15, per chi smetterà di lavorare prima dei 65 anni, varieranno dal 4,304 per cento per un pensionamento a 57 anni (-0,116% rispetto a ora) al 6,541 per cento per un pensionamento a 70 anni (+0,921% rispetto a ora).

Il passaggio dal metodo retributivo a quello contributivo risparmierà solo chi in pensione c’era già prima dell’inizio del 2012. Tutti gli altri, anche coloro che hanno iniziato a lavorare ormai da qualche anno, vedranno ricalcolato l’assegno col contributivo per la quota di anni di lavoro che ancora gli restano.


Si creano quindi tre situazioni:

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  • chi ha iniziato a lavorare meno di 18 anni fa ma prima del 31 dicembre 1995, anno di entrata in vigore della riforma Dini che per prima introdusse il sistema contributivo, avrà una pensione calcolata con il retributivo fino al 1995 e poi tutta con il contributivo.

  • chi è più anziano e lavora da più di 18 anni avrà il calcolo retributivo fino alla fine del 2011 e poi contributivo.

  • chi, invece, è più giovane e fino al 31 dicembre 1995 non lavorava ancora, il calcolo della pensione sarà interamente contributivo.

Non si salvano dalle ultime modifiche nemmeno particolari categorie di lavoratori. Recentemente, infatti, il Consiglio dei Ministri ha approvato il regolamento per cui i minatori  dovranno aspettare non più 55, ma 56 anni per raggiungere l’età pensionabile di vecchiaia e almeno 37 anni di contributi per la pensione anticipata. E’ coinvolto anche l’intero comparto sicurezza, difesa e pubblico soccorso. Per militari e poliziotti resta, comunque, il “premio” per cui 35 anni di contributi vengono conteggiati come fossero 40. A queste categorie, inoltre, non si applicherà il meccanismo dell’aspettativa di vita. Un caso particolare è quello degli esodati, quei lavoratori che hanno perduto il posto di lavoro a seguito di una ristrutturazione aziendale, di un accordo sindacale o di un accordo economico con il datore di lavoro, contando di poter accedere in breve tempo al trattamento pensionistico. Per loro il periodo di attesa si allunga e ancora si stanno cercando le risorse per tutelare economicamente il maggior numero di persone.

La riforma Fornero ha cambiato anche lo stato degli enti che in Italia si occupano di erogare la pensione. Ora, infatti, esiste solo l’Inps (Istituto Nazionale della Previdenza Sociale), che ha accorpato anche l’Inpdap (Istituto Nazionale di Previdenza e Assistenza per i Dipendenti dell'Amministrazione Pubblica) e l’Enpals (Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza per i Lavoratori dello Spettacolo). Sarà quindi solo presso l’Inps, presieduta dal 2008 da Antonio Mastrapasqua, che debbono essere obbligatoriamente assicurati tutti i lavoratori dipendenti pubblici o privati e alla maggior parte dei lavoratori autonomi, che non abbiano una propria cassa previdenziale autonoma. Le voci sempre più insistenti di un buco nel sistema previdenziale italiano devono fare i conti con un bilancio che nel 2011 ha visto l’erogazione di ben 14.8 milioni di pensioni previdenziali per 170.51 miliardi di euro e di 3.56 milioni di pensioni assistenziali (indennità civili e relativo accompagnamento) per 25.31 miliardi di euro. Numeri destinati a salire nei prossimi anni, con tutte le conseguenze negative del caso.