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Pensioni, una storia lunga più di un secolo

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Dal principio di volontarietà all’obbligatorietà, dalla capitalizzazione pubblica ad un sistema totalmente contributivo. Sono solo alcuni dei passaggi che hanno segnato la storia delle pensioni in Italia. Un percorso ormai di più di 100 anni. Era, infatti, il luglio del 1898 quando un decreto ministeriale istituisce la Cassa nazionale di previdenza come organo di tutela per la vecchiaia e per l’invalidità. Inizialmente i lavoratori possono iscriversi volontariamente all’ente e in cambio ricevono una rendita vitalizia al compimento dell’età pensionabile oppure nel momento in cui viene certificata la propria inabilità al lavoro. Sono proprio i contributi degli iscritti a determinare in massima parte il finanziamento della Cassa. Da quell’estate di più di un secolo fa tante cose sono cambiate, tanti ministri e presidenti del Consiglio hanno lasciato il proprio nome in eredità a riforme che modificavano una delle materie sociali più importanti. Sino all’ultima, quella studiata nel dicembre 2011 dall’attuale ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Elsa Fornero. Rivedere come si è arrivati alla situazione attuale è un tuffo nella memoria e nella storia dell’Italia.

Il film della previdenza nel nostro Paese incomincia, in realtà, con un lungo flashback. Il  primo intervento dello Stato nell’ambito del welfare italiano risale al 1862 con la regolamentazione dell’attività degli istituiti di carità e beneficenza.
Nel 1881, poi, viene creata la Cassa delle pensioni civili e militari a carico dello Stato e, due anni dopo, la legge istituiva la Cassa Nazionale contro gli infortuni. Il terreno è ormai pronto alla nascita ufficiale della Cassa nazionale di previdenza. L’ente, per far quadrare i conti, passerà in fretta dal principio dell’iscrizione volontaria a quello dell’obbligatorietà. A farne le spese sono prima i dipendenti pubblici e i ferrovieri, poi dal 1919 tutte le categorie lavorative.

L’Italia scelse da subito un sistema pensionistico a capitalizzazione pubblica. Il modello era quello tedesco, basato sull’assicurazione per i soli lavoratori che la finanziavano con i propri contributi e quelli dei datori di lavoro. Modesto, invece, il contributo dello Stato, al contrario di quanto avveniva in Gran Bretagna dove il governo garantiva una pensione minima a tutti i cittadini. Il sistema italo-tedesco venne conservato, senza variazioni sostanziali, per tutto il periodo fascista. Anche dopo che nel 1933 la Cassa nazionale per le assicurazioni sociali prende il nome definitivo di Istituto nazionale per la previdenza sociale (Inps). I capitali accantonati grazie ai contributi dei lavoratori venivano investiti in operazioni finanziarie. I guadagni derivanti dal rendimento degli investimenti effettuati si sommavano o si sottraevano alle riserve. Dal capitale così formato, escluse le spese correnti di gestione, veniva di volta in volta prelevata la quota necessaria ad erogare le prestazioni pensionistiche.

La seconda guerra mondiale e la conseguente inflazione galoppante hanno diminuito notevolmente l’importo reale degli assegni previdenziali. Così in Italia, terminato il conflitto bellico e fatte ripartire le attività economiche, si pensò di modificare anche questa materia sociale. Nel 1952 fu introdotto il sistema previdenziale cosiddetto a ripartizione contributiva. Il concetto base prelevare i contributi dai lavoratori attivi e contemporaneamente con essi, in diretto rapporto con quanto versato, pagare le prestazioni ai pensionati. A partire dalla fine del decennio di boom economico e di aumento della spesa pubblica si stabiliscono tutele per tutti i lavoratori, siano essi dipendenti o autonomi, coltivatori diretti, artigiani e commercianti. L’ingresso di queste categorie nel sistema di tutela pubblica ha consentito nella maggior parte dei casi un accesso ai benefici della spesa sociale senza un adeguato corrispettivo contributivo.

Altro spartiacque nella storia pensionistica italiana è la riforma Brodolini del 1969. Conseguenza delle conquiste e del rinnovato clima della lotta di classe dell’anno precedente, il nuovo sistema introduceva pensioni a ripartizione retributiva. In pratica il calcolo dell’assegno mensile avveniva non in base all’ammontare dei contributi effettivamente versati, ma alla retribuzione media di un preciso periodo della vita lavorativa moltiplicata per un’aliquota relativa agli anni di versamento contributivo. Le condizioni erano davvero molto favorevoli per i pensionati. Basti pensare che il periodo di riferimento per calcolare l’importo erano gli ultimi tre anni per i dipendenti privati, l’ultimo anno per i dipendenti degli enti locali e l’ultimo mese per i dipendenti pubblici. In questo modo con 40 anni di lavoro si percepiva circa l’80 per cento della retribuzione media del periodo di riferimento. Di lì a poco fu stabilito anche l’aggancio delle pensioni alla dinamica salariale.


Gli anni ’70 e ancora di più il decennio successivo sono stati caratterizzati da un sempre più eccessivo assistenzialismo statale e dall’aumento delle categorie sociali tutelate. Ad aggravare il peso sulla spesa dello Stato anche il diffondersi delle cosiddette ‘baby pensioni’, che permettevano ai dipendenti pubblici di ricevere l’assegno previdenziale dopo soli 19 anni e sei mesi di lavoro. Una scelta anacronistica come quella di mantenere, in un clima sociale ostile ai cambiamenti in materia, limiti di età (60 anni per gli uomini e 55 per le donne) risalenti ormai al 1939. Così, anche se il benessere diffuso chiudeva gli occhi e le orecchie di molti amministratori della cosa pubblica, negli anni '80 si preparò il terreno per incrementare la spesa sociale privata.

Negli anni ’90 lo Stato decida una vera e propria svolta restrittiva. Incomincia il governo di Giuliano Amato nel 1992 che, a stretto giro, approva una serie di provvedimenti: il blocco, per tutto il ‘93 delle pensioni di anzianità, l’aumento progressivo dell’età pensionabile fino a 65 anni per gli uomini e 60 per le donne, l’incremento fino a 15 anni del periodo di riferimento per il calcolo della retribuzione media pensionabile, l’eliminazione dell’aggancio ai salari, l’aumento a 35 anni del requisito per pensioni di anzianità dei dipendenti pubblici con meno di 8 anni di contributi al 31/12/92. Sono poi istituiti i fondi pensione. La riforma Dini del ‘95 mette un altro tassello sulla strada della riduzione della spesa pubblica. Reintroduce, per coloro che all’epoca avevano meno di 18 anni di anzianità lavorativa, il sistema contributivo, calcolato su quanto è stato effettivamente versato nel corso della propria vita attiva. In questo modo un lavoratore con 40 anni di contributi percepisce una pensione pari a circa il 45 per cento dell’ultimo stipendio, invece dell’80 per cento assicurato dal sistema retributivo. Il decennio si chiude con la riforma Prodi del 1997 che, nell’ottica dell’ingresso dell’Italia nell’Unione Europea, inasprisce i requisiti d’età per l’ottenimento della pensione di anzianità e incrementa l’onere contributivo dei lavoratori autonomi.

L’epoca più attuale continua sulla strada del rigore del settore previdenziale con sempre maggiore decisione. La prima tappa di questo percorso è la riforma Maroni del 2004. Si stabilisce, nel tentativo di disegnare un sistema più equo e sostenibile dal punto di vista finanziario, l’innalzamento dell’età per il pensionamento di anzianità. La soglia sale a 60 anni per tutti a partire dal 2008, fermo restando il requisito contributivo di 35 anni. Nel 2010 il requisito di età sale a 61 anni e nel 2014 a 62. Requisito alternativo per l’accesso al pensionamento sono i 40 anni di contribuzione, a prescindere dall’età anagrafica. Per i lavoratori la cui pensione è liquidata esclusivamente con il sistema contributivo, il requisito anagrafico minimo previsto è elevato a 60 anni per le donne e a 65 per gli uomini. Tra le altre cose la riforma Maroni riduce anche da 4 a 2 delle finestre di uscita per chi matura i requisiti del pensionamento di anzianità, con il conseguente ulteriore innalzamento dell’età pensionabile. Nel 2007 viene introdotto il sistema delle quote, cioè  la somma dell’età anagrafica e dell’anzianità contributiva del lavoratore. Si andava da quota 95 (con almeno 59 anni di età) del luglio 2009 alla prevista quota 97 (con almeno 61 anni di età) del gennaio 2013.

A partire dal 2010 ulteriori cambiamenti sostanziali incidono sulle pensioni. Con la manovra finanziaria 2010 il governo di centrodestra stabilisce, a partire dal 1° gennaio 2015, l’innalzamento dei requisiti per le pensioni di vecchiaia e di anzianità. Il ritmo degli adeguamenti dell’età pensionabile all’aumento medio della vita non è più ogni 5 anni, ma ogni 3. Inoltre, compare la “finestra mobile” che si apre dopo 12 mesi per i dipendenti e dopo 18 mesi per i lavoratori autonomi. Viene approvata anche la diminuzione dell’aliquota sul calcolo della pensione (ogni tre anni). E si arriva così al 2011 e alla riforma Fornero. L’ultimo provvedimento in materia previdenziale prevede il passaggio al sistema contributivo pro-rata per tutti dal 1 gennaio 2012. Scompare la pensione di anzianità, sostituita da quella anticipata. Ma non bastano più i 40 anni di servizio, dal 2012 ce ne vogliono 42 e un mese per gli uomini e 41 e un mese per le donne. Soglie destinate a salire di un mese nel 2013 e nel 2014. Si innalza ulteriormente il livello minimo di età pensionabile: l’età minima di pensionamento passa subito da 60 a 62 anni per le lavoratrici dipendenti (che diventeranno 64 nel 2014, 65 nel 2016 e 66 nel 2018) e 66 anni per gli uomini. In tutti i casi è necessario avere un’anzianità contributiva di almeno 20 anni. Numeri che segnano un andamento preciso.
Per i giovani, se non ci saranno novità positive, sarà una chimera andare in pensione a 70 anni.