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L’incognita cinese pesa sull’economia mondiale

Come sta davvero la Cina? E’ il quesito più gettonato questi giorni tra gli addetti ai lavori nei mercati finanziari. Proprio oggi è stato pubblicato l’indice Pmi manifatturiero relativo a marzo e il dato – 48,1 punti – è risultato il più basso degli ultimi otto mesi. Segno evidente che la produzione e gli ordinativi risentono della debolezza che caratterizza in questa fase la domanda interna. Una situazione che crea preoccupazione, considerato che il nuovo corso cinese si basa proprio sulla crescita dei consumi nazionali per compensare la frenata dell’export, dovuta alla debolezza dell’Europa e al rialzo dei prezzi (dovuto, a sua volta, all’aumento degli stipendi).

Crescita poco sopra il 7%

Nel 2013 il Pil cinese è cresciuto al ritmo del 7,7%, un valore considerato poco sopra la soglia di sostenibilità per consentire uno sviluppo senza particolari tensioni sociali. Quest’anno le cose sembrano tuttavia andare peggio, con Goldman Sachs che pochi giorni fa ha ridotto le stime di crescita dal 7,6% al 7,3% per il 2014 e dal 7,8 al 7,6% nel 2015. Lo yuan ha risentito di queste stime e dei dati deludenti sul fronte dell’industria, scendendo ai minimi dell’ultimo anno sul dollaro, complice l’ampliamento della banda d’oscillazione deciso dalla Banca centrale.

A creare preoccupazione è anche una novità sul fronte dei bond: Shanghai Chaori Solar Energy non ha pagato i creditori delle sue obbligazioni per circa 15 milioni di dollari e ha segnato il primato del del primo default nella storia della Cina, da quando il governo ha avviato la contrattazione pubblica dei titoli di debito nel 1997. Con il mercato che adesso cerca di capire se si tratta di un fatto isolato o dell’avvio di una catena di fallimenti che avvicinerebbe la Cina alle economie di mercato.

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Fondamentali solidi

Anche se gli ultimi dati sono risultati inferiori alle attese, non va comunque dimenticato che il ritmo di crescita cinese è doppio rispetto a quello statunitense, per non fare confronti con il Vecchio Continente, che ancora fatica a imboccare una decisa strada di crescita. Le vendite al dettaglio continuano a crescere a doppia cifra percentuale (+11,8% a febbraio) e la Borsa di Shanghai nelle ultime settimane si è mostrata meno volatile che in passato. Anche perché, è la convinzione diffusa tra gli analisti, il rallentamento della crescita nell’economia reale potrebbe spingere le autorità di Pechino e la Banca centrale ad allargare i cordoni della borsa.

Le stime degli analisti

Secondo il direttore del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, la Cina non è un focolaio di tensioni per i mercati internazionali, anche se è chiamata ad accelerare la transizione  da economia basata su export, spese per le infrastrutture a un modello maggiormente basato su servizi, innovazione, spesa dei consumatori e politiche green. Anche per Chris Iggo, chief investment officer del fixed income per Axa Im, occorre raddrizzare alcuni squilibri, a cominciare dall’eccessiva esposizione debitoria, anche se al momento la crescita su ritmi sostenuti (per quanto in rallentamento) non è in discussione.

Per Paolo Federici, managing director Southern Europe and Latin America di Fidelity Worldwide Investment, il listino cinese è uno dei più interessanti tra i listini emergenti, soprattutto per quel che concerne il comparto dei consumi, da quelli di base ai comparti continui come Internet, le assicurazioni e l’energia pulita. Una riflessione, quest’ultima, maggioritaria tra i gestori. Le correzioni dell’ultimo anno e mezzo sembrerebbero già scontare il rallentamento della crescita e qualche problema a livello societario. Anche se, all’interno di un portafoglio ben diversificato e orientato alla crescita nel medio-lungo termine, una piccola esposizione a quella che è ormai la seconda economia al mondo può risultare utile. A patto, però, di accettare di fare i conti la volatilità.