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Perché gli stranieri non investono in Italia

Risparmi del Quirinale: è tutto oro quel che luccica?

Il dibattito politico sull'abolizione dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. La decisione di British Gas di abbandonare Brindisi dopo undici anni di inutile attesa per il via libera al rigassificatore. La stagione mai terminata di Tangentopoli. Le lungaggini della giustizia. Sono tante le ragioni sollevate nelle ultime settimane per spiegare il calo di appeal dell'Italia verso gli investitori stranieri. Proviamo a capirne di più facendo riferimento a dati e tendenze.

I numeri

L'Italia esce a pezzi nel confronto internazionale: nella Penisola gli investimenti stranieri sono pari all'1,2% del Pil (cioè della ricchezza prodotta in un anno), davanti alla sola Grecia (0,8%, magrissima consolazione!), ma dietro a Germania (1,6%), Portogallo (2,4%), Francia (2,7%) e Spagna (3,2%). Mentre ben più distanti sono la Svezia (4,6%), i Paesi Bassi (6,1%) e il Belgio (13,5%). Nel corso del 2011, gli investimenti stranieri in Italia hanno subito un crollo del 53% rispetto all'anno precedente.

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I nodi del mercato del lavoro

Intorno all'ipotesi di abolire l'articolo 18 si è scatenata — come spesso accade in Italia — una guerra ideologica tra opposte fazioni, che ha finito con il mettere in secondo piano il problema reale. Ha ragione sia chi contesta le rigidità del mercato del lavoro, sia chi sottolinea che già oggi nelle imprese con più di 15 dipendenti ci sono tutte le condizioni per licenziare. Tanto che ogni giorno c'è qualche imprenditore che manda a casa dipendenti per "giusta causa" o "giustificato motivo". Sullo sfondo resta però un problema irrisolto: le lungaggini e la mancanza di un orientamento univoco in sede giurisprudenziale rendono questa decisione inevitabilmente precaria. I ricorsi dei lavoratori licenziati spesso approdano a giudizio dopo sei, otto o anche dieci anni. A quel punto, se il giudice ordina il reintegro, il datore sarà costretto a farsi carico degli arretrati (comprese le ferie non godute). In conseguenza di questa incertezza, verosimilmente non assumerà nessuno al posto del lavoro licenziato, di fatto contribuendo a bloccare il mercato del lavoro e rinunciando a crescere. Né al lavoratore che ha perso il posto fa bene restare nel limbo dell'incertezza per anni, a cominciare dalla mancanza di sostentamento economico.

Tasse e burocrazia

Il peso eccessivo della tassazione è un'altra delle lamentele che spesso arrivano dal fronte imprenditoriale. Anche qui può essere utile un riferimento ai numeri: nell'Unione Europea le tasse incidono mediamente per il 38,4% del Pil, mentre in Italia il dato si attesta al 43,2%, inferiore solo ai Paesi Scandinavi (in Danimarca si arriva al 48,1%, ma a fronte di una qualità dei servizi offerti ai cittadini ben più elevata), ma di gran lunga superiore a Germania (39,7%), Regno Unito (34,9%) e Spagna (30,4%).

Qualcuno potrebbe obiettare che in nessuno di questi Paesi c'è un tasso di evasione fiscale come in Italia (un euro su sei generato è in nero) e anche questo è vero. Un problema che non nasce oggi, ma che nel tempo si è sedimentato anche grazie al periodico ricorso ai condoni e alla presenza di norme che prevedono sanzioni blande rispetto al resto d'Europa. Ragion per cui occorre intervenire con un'azione coordinata per riconquistare la fiducia degli investitori esteri, non dimenticando di incidere anche sulla burocrazia, che si muove con la lentezza di un bradipo e senza offrire garanzie. La situazione peggiore per chi decide di investire.