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Pmi e credito, nei mercati dei capitali la ricetta per sbloccare la crisi

Non solo i ritardi dei pagamenti da parte dello Stato nei confronti delle imprese e i difficili rapporti tra grandi e piccole aziende, con le prime che fanno valere il proprio peso specifico per dettare le regole contrattuali. Le difficoltà sul fronte del credito, che stanno mettendo in ginocchio l'economia italiana (perché, quando manca la liquidità, l'azienda non solo non può investire per crescere, ma nemmeno rifornirsi di prodotti e pagare i propri dipendenti), nascono anche da un'altra causa: la scarsa propensione delle imprese italiane — soprattutto quelle di piccole e medie dimensioni — ad accedere ai mercati dei capitali. Cerchiamo di capire perché e quali strade potrebbero aiutare a superare il problema.

Le small cap tornano a correre

In questo primo scorcio di 2012 le small cap europee hanno registrato progressi mediamente doppi (pur con differenze sensibili tra un listino e l'altro) rispetto alle Blue Chip (come vengono identificate le società a maggiore capitalizzazione e il differenziale a favore delle prime è presente — pur se in misura minore — anche sui listini americani. Un fenomeno che gli analisti spiegano con l'abbondante liquidità immessa sul mercato dalle banche centrali, che ha spinto gli investitori a riconsiderare anche le società meno liquide, le più trascurate durante la fase più dura della crisi.

Italia in coda per le pmi quotate

L'Italia, per antonomasia il paese delle pmi (sono il 90% del totale), finora ha costituito un'eccezione nel mondo occidentale per quanto riguarda l'accesso delle aziende al mercato dei capitale. Le realtà quotate sono solo 286 (un numero rimasto sostanzialmente invariato negli ultimi dodici anni), di cui appena 19 negoziate sui segmenti specializzati per le piccole e medie imprese. Niente a che vedere con le 933 di Franfort, le 779 di Parigi e le 660 di Londra (che diventano 1.500 considerando anche le imprese di piccole dimensioni).

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Tanti sforzi, pochi risultati

Borsa Italiana e la Consob hanno cercato di invertire il trend con una serie di workshop e incontri sul territorio per convincere le pmi a quotarsi, ma gli sforzi finora hanno portato pochi risultati. Né sembra aver giovato finora la fusione (divenuta operativa all'inizio di marzo) tra i due indici di Borsa destinati a questo segmento di imprese, vale a dire il Mac e l'Aim, accompagnata dallo snellimento degli aspetti procedurali per arrivare alla quotazione. Un fatto che sorprende alla luce della drammatica situazione di accesso al credito che caratterizza proprio le imprese di minori dimensioni: laddove il dialogo con le banche diventa sempre più difficile, l'accesso al mercato dei capitali può aprire nuovi canali di finanziamento.

Le cause

Il ritardo italiano chiama in causa in primo luogo ragioni di carattere culturale: le pmi del nostro Paese, a stragrande maggioranza a carattere familiare, non accettano di buon grado di condividere il proprio capitale con altri. Così come pesano gli obblighi di comunicazione e trasparenza imposti dallo sbarco in Borsa.

Ma le cause sono anche di carattere fiscale: soprattutto in Gran Bretagna e Francia, sono previsti sgravi a vantaggio di chi investe in Ipo e mantiene in portafoglio i titoli per almeno tre anni. Senza dimenticare la semplificazione procedurale del listino tedesco. Un differenziale che pone un nuovo rischio: molti imprenditori potrebbe valutare lo sbarco sui listini stranieri, penalizzando di fatto il nostro Paese.