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Cos’è un marchio

Sono parole, nomi, disegni, loghi, colori e suoni. Oppure, tutte queste cose insieme. Il mondo dei marchi è ovunque: oggetti, servizi, o anche certificazioni d'origine. Dotati di significato, come fossero ideogrammi, creano (o confermano) idee e associazioni mentali sulla marca (o del brand, che è — più o meno — la stessa cosa) e sono regolati da un sistema di norme e limitazioni che si pongono prima del momento della loro registrazione, e anche dopo.

Non è strano. Il marchio ha una funzione importante: riassume in sé un prodotto, o un'intera azienda. Meglio ancora: riassume l'idea che l'azienda vorrebbe dare di sé (anche se, a volte, le idee che si impongono sono diverse). Il marchio, allora, è il simbolo di quest'idea (o insieme di idee) che a loro volta costituiscono la marca. Un'esigenza sentita dal produttore, che vuole stabilire un rapporto preciso con i consumatori, e dal cliente, che in questo modo sa cosa può aspettarsi da un'azienda o un prodotto, perché lo riconosce dalla marca.

L'abitudine di collegare simboli a un prodotto e alle sue qualità è antica. Di sicuro i fabbri romani lasciavano, sulle loro spade, un segno caratteristico. Volevano dimostrare la paternità dell'opera ed evitare i falsi. Ma anche in modo inconsapevole, i marchi sono sempre esistiti. Secondo Bruno Ballardini, esperto di marketing e docente all'Università La Sapienza di Roma, anche la croce cristiana può essere considerata un marchio. Involontario, certo, ma capace di simboleggiare in modo immediato tutto ciò che è collegabile alla Chiesa, che, in questo modo, diventerebbe una marca.

Registrazione e uffici
Ma, provocazioni a parte, come si fa a registrare un marchio? Prima di tutto, occorre tenere conto dell'area di diffusione del prodotto, e di conseguenza del marchio. In generale, si distingue tra diffusione "locale" e "non locale". Può essere molto limitata, cioè "locale", e riguardare solo una regione, o anche meno. Oppure più ampia, cioè "non locale", e può raggiungere tutto il territorio nazionale, o anche quello di più stati insieme. Nel primo caso, basterà fare riferimento all'Ufficio Nazionale di Marchi e Brevetti nazionale, qui la procedura da seguire è relativamente semplice. Con una ricerca attenta si verifica che un marchio uguale o simile non sia già registrato. Soprattutto, non sia registrato nella stessa categoria merceologica o di servizio. Poi, si deposita la domanda (con tutti i dati relativi al marchio: se ci sono parole, quali, la forma, i colori, il logo). Spesso questo servizio viene compiuto da agenzie o da studi di avvocati specializzati. Per ottenere la certificazione, non occorre aspettare molto. Il marchio sarà registrato per sempre e non decadrà mai. Anche se dovrà essere rinnovato ogni dieci anni.

Se si vuole coprire più stati, ci si deve rivolgere all'Ufficio di ciascun paese. L'assistenza di un avvocato del posto, in questo caso, potrebbe essere obbligatoria secondo le norme dei vari paesi. Se invece si vuole coprire l'intera Unione Europea, allora ci si deve rivolgere all'Ufficio l'Armonizzazione del Mercato Interno, con sede ad Alicante, che si occupa della registrazione in tutti i paesi dell'Unione. In Europa, del resto, le direttive centrali hanno armonizzato le regole sui marchi e brevetti. Insomma, le differenze sono poche.

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Infine, esistono altri organismi che aggregano più stati: uno di questi è il cosiddetto "sistema di Madrid", cui aderiscono composto da due trattati: dall'Accordo di Madrid, del 1898 e dal più recente Protocollo di Madrid, del 2000. Il punto di partenza è la registrazione (Accordo) o il semplice deposito (Protocollo) del marchio nel paese d'origine. Dopodiché, il primo concede solo 12 mesi perché la domanda, una volta depositata venga verificata e certificata. Altrimenti scade.
Una cosa svantaggiosa per paesi molto scrupolosi come Usa, Gran Bretagna e Giappone. Che, di conseguenza, preferiscono aderire al Protocollo, dove i mesi a disposizione sono 18 più 7 in caso di ricorso. Infine, se per qualsiasi ragione il marchio viene cancellato nel paese d'origine, secondo l'Accordo, con un effetto domino decade anche in tutti gli altri. Il Protocollo, invece, resiste meglio ad attacchi di questo genere. All'azienda basta presentare una domanda di conversione e il marchio viene mantenuto in tutti i paesi aderenti, tranne, com'è ovvio, quello d'origine.

Criteri
Non tutti i marchi proposti vengono registrati. Ci sono limitazioni decise dalla legge. Il marchio deve essere presentato nella sua interezza (parole, disegno, forma, colori), secondo la richiesta di rappresentabilità grafica. Inoltre, la sua denominazione non può essere il nome generico del prodotto. «Se si vuole fare il marchio di una azienda che vende mele, non si può fare un marchio che si chiama "mela"», spiega l'avvocato Laura Turini, dello studio legale fiorentino Turini. «Invece si può chiamare così un'azienda che produce altro». E c'è: la Apple. È il requisito di originalità del marchio. «Si possono però utilizzare nomi allusivi, di fantasia, che alla lontana possano suggerire di che prodotto si tratta. Ma sempre con il rischio che venga giudicato troppo generico». Sempre restando sulle mele, è il caso di "Melinda", nome di fantasia e marchio del consorzio delle aziende produttrici di mele della Val di Non.

Nel caso si vogliano registrare nomi propri, è proibito utilizzare il nome di persone famose (senza averne chiesto il consenso). Se, per pura coincidenza, il nome del produttore è uguale a quello di una celebrità, «prevale la seconda», spiega l'avvocato Turini. A meno che il titolare del marchio non dimostri che, nell'area di diffusione del suo brand, sia più conosciuto lui che il personaggio famoso in questione. Questioni di lana caprina.

I marchi, poi, non devono essere offensivi e ledere il buon costume. Ha fatto scalpore, in Germania, la registrazione del marchio della birra Ficken dell'azienda EFAG, che produce alcolici. Ficken, in tedesco, è una parolaccia. Nonostante la scelta giudicata «di cattivo gusto», l'Ufficio Marchi e Brevetti tedesco non ha avuto niente da dire: «Non lede nessuno e non è discriminante», hanno detto. Non si può dire di no. In questo caso, si rispetta il requisito di liceità del marchio. Lo stesso è accaduto all'Ufficio Marchi e Brevetti dell'Unione Europea, dovendo registrare un caso simile: la birra "Fucking Hell" (una parolaccia). Stavolta il gioco si sorregge sul fatto che Fucking è il nome di una cittadina austriaca, mentre Hell è, in forma abbreviata, la parola tedesca "Helles" che definisce un tipo di birra chiara e leggera. La coincidenza è del tutto artificiale, anche perché a Fucking non esiste alcuna fabbrica di birra. Il trucco però è stato sufficiente a far accettare il marchio.

Secondo la legge, poi non deve essere "decettivo", cioè ingannevole. Rappresentando nella sua forma (o anche nelle sue parole) elementi che, se associati a un prodotto, inducano a conclusioni errate (ad esempio, l'immagine di una mucca per un prodotto di origine vegetale). Non deve nemmeno essere una bandiera, uno stemma nobiliare, o un qualsiasi segno registrato nel Wipo (World Intellectual Property Organization).

E da qui si arriva all'ultimo requisito, che è anche il più importante. Il marchio deve essere una novità estrinseca, cioè non essere né uguale né simile a un altro già esistente, soprattutto se il tipo di prodotto è simile. La somiglianza potrebbe confondere il consumatore: il nuovo prodotto si servirebbe, in questo modo, della reputazione di prodotto analogo già esistente per fare profitti.

Per questo motivo, per tutelarsi, si cerca la protezione legale del proprio marchio. Cosa che, in realtà, si può ottenere anche senza registrazione. «È il caso dei "marchi di fatto". Hanno una copertura legale più debole e appartengono ad aziende con un bacino di diffusione limitato. È compito del marchio di fatto dimostrare, in caso di controversia, la sua diffusione e la sua priorità rispetto a un'altra azienda che tenti di imporsi nella medesima area con un marchio simile», spiega l'avvocato Turini. Anche qui, la questione si dibatte in punta di diritto, e con documenti alla mano.

Intanto, uscendo dalle gabbie delle leggi e dei regolamenti, i marchi vivono di vita propria. I loro nomi entrano nel linguaggio comune, e così le loro forme e colori, tanto, che in molti casi, vengono confusi e non sono più percepiti come un marchio. Per esempio, succede con l'aspirina, nome del farmaco prodotto dalla Bayer (e poi dichiarato decaduto a forza nel Trattato di Versailles dopo la prima guerra mondiale). Oppure del cellophane, un marchio nato nel 1912, o del thermos, del nylon. Tutte parole che ormai denotano un tipo di oggetto, e non una marca. Viene affermata così la sanzione definitiva del loro successo. Ma, al tempo stesso, anche della loro fine.