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Le sanzioni europee all’Italia

Sarà un innato spirito di disobbedienza, o la diffidenza verso istituzioni lontane come appunto l'Europa. Oppure semplice menefreghismo chissà. Ma su un fatto non si discute: l'Italia è la prima a non obbedire all'Europa e a ricevere, di conseguenza, le giuste sanzioni.

Il rapporto che la Commissione Europea stila mese dopo mese parla chiaro: riprende le multe, i richiami e le contestazioni inviate ai paesi europei e dipinge, per noi, un quadro sconfortante. Se proprio vogliamo essere onesti, l'Italia non è l'unica. Il primato di novembre è tutto nostro, con 11 infrazioni contestate. A ottobre erano 5 (la Grecia ne aveva fatte 6). Nell'ultimo mese anche l'Olanda, di solito ligia, è stata colpita da sette richiami. Mal comune, mezzo gaudio, forse. Ma di sicuro i problemi cominciano qui.
Ma come si calcolano le infrazioni e i richiami? La procedura è semplice. Sia come materie che come "livello" di procedura, le cose finiscono nello stesso calderone. Innanzitutto i livelli: i richiami della Commissione (che ha il compito di garantire la corretta applicazione del diritto dell'Unione) diventano allarmanti - cioè portano un rischio concreto di sanzioni — qualora si arrivi al "deferimento alla Corte di Giustizia" e, di conseguenza, all'apertura di un contenzioso. Per fortuna, il 95% delle volte le cose si risolvono prima, con lo strumento del cosiddetto "procedimento d'infrazione", una fase precedente e divisa in due parti. La prima è la messa in mora, con cui la Commissione invita lo Stato membro a comunicarle le proprie osservazioni sul problema rilevato. La seconda è, invece, il "parere motivato", lo strumento con cui la Commissione crea i presupposti per un ricorso per inadempimento. In questo modo si chiede allo stato membro di porre fine all'infrazione entro un dato termine.
Non solo. Se si va a guardare le infrazioni di novembre, si noteranno "messe in mora" e "pareri", tutte cose che non danno seguito a problemi se vi si porrà rimedio in tempo. Se poi si considera il livello di tecnicità (in molti casi molto alto) di alcune critiche mosse all'Italia, si potrebbe pensare che le cause che blocchino la sua attuazione siano più da attribuire alla noncuranza piuttosto che a problemi più profondi (e gravi). Un esempio per tutti: l'Europa ha invitato l'Italia ad adottare "una normativa nazionale in materia di attrezzature a pressione trasportabili". Ci hanno chiesto, insieme a Grecia, Lussemburgo e Paesi Bassi, "di recepire la nuova direttiva sul comitato aziendale europeo" e di "comunicare le misure nazionali che attuano la direttiva che elimina i valori massimi del pH per i concentrati piastrinici e i componenti del sangue alla fine del periodo massimo di conservazione").

Certe volte, insomma, chi non applica le indicazioni riesce a cavarsela, o a giustificarsi. Ma certe altre no. Sono quelle in cui è evidente che la mancata applicazione sia una scelta ponderata, e volta a proteggere i propri particolari interessi. La "furbata", per capirsi.
Ad esempio, l'Italia è stata messa in mora per la mancata introduzione di "adeguate procedure di ricorso per le domande di sgravio o rimborso dei dazi doganali": perché è vero che da noi "le imprese che si trovano in condizioni particolari possono chiedere uno sgravio o un rimborso dei dazi versati, presentando richiesta all'ufficio doganale nazionale". Ma è altrettanto vero che, contro "un pilastro fondamentale dell'ordinamento giuridico dell'UE" (e a protezione delle casse statali), "se le imprese intendono fare ricorso contro una decisione negativa dell'autorità doganale italiana, lo Stato non riconosce loro la tutela giudiziaria per qualunque decisione relativa a questa materia".
Ma, come si diceva sopra, l'Italia non è la sola. Spesso il rilievo è condiviso con altri paesi, e ciò suggerisce che l'inadempimento è, almeno in parte, causato dalla particolarità degli ambiti toccati. Ad esempio, si parla di settori economici in cui non è facile per nessuno arrivare ad una efficace applicazione del diritto comunitario. Come a ben altri 15 paesi, ad esempio, ci è stato comunicato di non aver "pienamente recepito nel diritto interno la nuova normativa dell'Unione in materia di telecomunicazioni". Un problema annoso e delicato, anche dal punto di vista politica. La sua attuazione parziale, inoltre, "limita di fatto i diritti dei consumatori in materia di telefonia fissa, servizi mobili e accesso a internet". Allo stesso modo, siamo stati invitati (insieme ad Austria, Germania e Lussemburgo) ad "adottare provvedimenti legislativi per attuare la normativa Ue e garantire così che i diritti aeroportuali siano trasparenti e non discriminatori".
A certe consorterie tuttavia siamo sensibili quasi più di chiunque altro. Non si scherza. Rischiamo concretamente di prendere una multa di oltre 96.000 euro al giorno (questa la richiesta della Commissione alla Corte di Giustizia), perché solo noi (e i polacchi) non abbiamo ancora comunicato, a un anno dall'adozione della terza direttiva sui requisiti patrimoniali minimi degli istituti di credito, alcuna misura di recepimento della stessa.
Prima con Germania, poi con Polonia.

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Ma ci sono infrazioni (e sono tante) in cui figura l'Italia da sola. Con avvilente chiarezza, da questi dati emergono alcuni esempi di malcostume tutto nostro: si comincia dal peso di alcune piccole ma riottose lobby (abbiamo appena due mesi per porre rimedio alle numerosissime inadempienze in materia di caccia agli uccelli e due mesi anche per ovviare alle norme nazionali che discriminano gli stranieri candidati a posti di professore ordinario) e si finisce con esempi del protezionismo più provinciale. È il caso di uno dei tre procedimenti giunti al deferimento alla Corte, che riguarda l'esenzione Iva concessa sulle navi: «se uno Stato membro estende l'applicazione delle esenzioni, come fa l'Italia, crea una disparità tra gli Stati membri e di conseguenza determina distorsioni della concorrenza nel mercato interno». Ci avevano avvertito nel maggio 2009, ma, si sa, a noi i mercati concorrenziali fanno paura. E ora tocca difenderci in Tribunale.
Se proprio non si vuole farsi mancare nulla, sul tavolo c'è anche la golden share all'italiana, materia di scottante attualità: "La Commissione europea ha deciso di deferire l'Italia alla Corte di giustizia dell'Unione europea in quanto ritiene che alcune disposizioni della normativa italiana che conferisce poteri speciali allo Stato nelle società privatizzate operanti in settori strategici come le telecomunicazioni e l'energia impongano restrizioni ingiustificate alla libera circolazione dei capitali e al diritto di stabilimento. Uno o più di questi poteri speciali sono stati introdotti negli statuti di Enel, Eni, Telecom Italia e Finmeccanica". Il testo parla da solo.

In questo caso, che è emblematico, il Governo Monti deve avere già provveduto a rassicurare la Commissione: "Stando agli ultimi contatti con le autorità italiane si può prevedere che entro breve l'Italia riuscirà a conformarsi alla legislazione Ue. Pertanto la Commissione europea ha deciso di rimandare di un mese l'esecuzione della decisione di rinvio dinnanzi alla Corte". Queste le parole della Commissione. Insomma, il nuovo governo non farà miracoli, e la sensibilità nazionale sul tema è quella che è, cioè poca. Di quello che dicono a Bruxelles importa poco, e non finisce nemmeno sui giornali. Ma l'esborso in denaro (sempre più cospicuo), la perdita di credibilità internazionale e, nella sostanza, il persistere di atteggiamenti provinciali, arretrati, protezionistici costituiscono un danno grave al nostro paese. Sarebbe ora che qualcosa cambiasse. In meglio, si spera.