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Accettereste un taglio allo stipendio pur di lavorare da casa?

(Photo: Prostock-Studio via Getty Images/iStockphoto)
(Photo: Prostock-Studio via Getty Images/iStockphoto)

Sareste disposti a rinunciare ad una parte di stipendio pur di non tornare a lavorare in ufficio? Rinuncereste ad alcuni preziosi benefit aziendali, se vi promettessero la settimana lavorativa corta? Un tempo la risposta a queste domande sarebbe stata scontata, poi è arrivata la pandemia che ha sconvolto le priorità. A dimostrarlo sono diversi report, come quello messo a punto dalla società di sondaggi Pollfish: su mille lavoratori intervistati, più della metà del campione (65%) ha detto che sarebbe disponibile ad un taglio dello stipendio. Ma il dato che sorprende di più è che per il 15% sarebbe accettabile tagliare addirittura del 25% la busta paga pur di non dover tornare a vivere e a lavorare come una volta. Quasi la metà, il 46%, ha poi dichiarato che rinuncerebbe a un quarto dei suoi giorni liberi pur di restare a casa e il 15% rinuncerebbe a ferie e permessi retribuiti per poter lavorare da remoto. Il tempo libero, per una parte dei dipendenti, insomma sembra non avere prezzo. Merito della pandemia che, secondo il New York Times, ha innescato un processo di trasformazione irreversibile dimostrandoci, una volta per tutte, che “siamo molto di più del lavoro che facciamo”. E che esiste un solo futuro per il mondo del lavoro: quello di lavorare meno.

Accettare un taglio di stipendio pur di lavorare da casa

(Photo: Good Hire)
(Photo: Good Hire)

Secondo uno studio di GoodHire, che ha coinvolto 3500 americani, il 61% del campione sarebbe disposto a rinunciare ad una parte dello stipendio per mantenere lo status di lavoratore da remoto. Ma a quale cifra sarebbero davvero disposti a rinunciare? La maggior parte ha dichiarato di essere disponibile a rinunciare al 10%, ma qualcuno ha azzardato anche un 50% della paga mensile. La domanda quindi sorge spontanea: se gli americani sono pronti a rinunciare a parte dei soldi guadagnati, a cosa altro rinuncerebbero per non tornare in ufficio? La risposta, indagata dai ricercatori, è stata sorprendente: dai dati raccolti è emerso che il 70% delle persone intervistate sarebbe disposto a sacrificare alcuni benefit, come l’assistenza medica, gli ingressi gratuiti in palestra, le agevolazioni pensionistiche. Uno specchio, questo, di un tempo che è cambiato: “Ripensando alla nostra cultura pre-Covid, chi avrebbe mai considerato di rinunciare a questi privilegi e perfino ad una parte del salario soltanto per lavorare da casa qualche giorno alla settimana? - scrive GoodHire -. Ma siamo nel 2021 e le persone ci hanno preso gusto con la libertà e la flessibilità che offre il lavoro da remoto e vogliono disperatamente che questa situazione si prolunghi. È estremamente chiaro che le persone preferiscano il lavoro da remoto, pagherebbero letteralmente per mantenere questo status”. Interessanti anche i dati che riguardano gli annunci di lavoro: al classico full time in ufficio, l′85% preferisce posti che offrano anche possibilità di smart working e opzioni ibride.

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Accettare di vedersi ridotto lo stipendio pur di proseguire con il lavoro da remoto è una mossa disperata? Forse. Ma è l’unica prospettiva che hanno davanti alcuni lavoratori, come quelli di Google. Il colosso ha già annunciato un taglio di almeno il 25% in busta paga per chi vorrà lavorare da casa per sempre. La società di Mountain View, con 135mila dipendenti, ha messo a punto una piattaforma per calcolare la retribuzione per il lavoro a distanza: lo strumento si chiama “Work location tool” e basa la retribuzione sul costo della vita nei luoghi e al mercato del lavoro locale. Un’iniziativa che già altre società della Silicon Valley hanno messo in pratica: Facebook e Twitter pagano stipendi più bassi ai propri dipendenti che hanno deciso di lavorare da aree dove è più basso il costo della vita. In pratica, un impiegato che vive a Stamford (Connecticut), a circa un’ora di treno da New York, verrebbe pagato il 15% in meno se decidesse di lavorare da casa, mentre un suo collega con residenza nella Grande Mela non subirebbe tagli alla retribuzione. Ma in altri casi la busta paga potrebbe ridursi comunque di un quarto (-25%) se si lascia una città come san Francisco per spostarsi in un’altra area quasi altrettanto costosa dello stesso Stato.

Sì alla settimana lavorativa corta e allo smart working, ma ad un costo

A dimostrazione che il lavoro da remoto sia ancora da considerarsi un privilegio, ci sono gli esempi di alcune aziende che hanno provato ad assecondare il desiderio dei dipendenti di lavorare da casa, ma ad un costo: una “piccola” sforbiciata sul salario. In Spagna i sindacati e il gruppo Telefónica, il colosso internazionale delle telecomunicazioni, si sono accordati per la tanto ambita “settimana corta”: i dipendenti saranno liberi di lavorare per 32 ore a settimana e di fare smart working per due giornate. Previsti una serie di vantaggi, come sedia ergonomica, pc e connessione gratis per chi resta a casa. Potranno inoltre svolgere l’attività lavorativa dalla seconda abitazione. Tutto questo “solo” con una riduzione del 15% in busta paga. Anche la casa di moda Desigual ci prova: l’azienda spagnola ha proposto un taglio delle ore di lavoro dalle attuali 39,5 a 34,5. Una settimana 3+1, tre giorni in ufficio e una in smart working. La busta paga però si restringerebbe del 6,5%. Saranno il lavoratori a votare la proposta che arriva direttamente dal suo fondatore.

Ma si tratta davvero di esperimenti avanguardistici? Ha senso lasciare a casa il lavoratore decurtandogli il salario? Se in termini di produttività il dipendente rendesse di più lavorando da casa per meno giorni a settimana, perché non pagarlo adeguatamente? Da tempo si discute sulla possibilità di introdurre la settimana lavorativa corta. Già due anni fa un esperto della Banca d’Inghilterra aveva previsto che il regime lavorativo ridotto avrebbe potuto soppiantare quello tradizionale entro il 2050. Il dibattito si è intensificato con la pandemia e con l’avvento dello smart-working diffuso: nel maggio 2020, per esempio, la premier neozelandese Jacinda Ardern ha evocato la possibilità di beneficiare di ferie aggiuntive e della settimana corta per favorire la ripresa economica dopo il Covid-19. La rivista Forbes ricorda che in questi anni molte importanti aziende hanno avviato test che vanno in questa direzione. Unilever, scrive la testata, ha fatto partire un programma che consente ai dipendenti neozelandesi di lavorare quattro giorni alla settimana e di scegliere come distribuire quelli di riposo. Anche Toyota, in Svezia, ha ridotto a 6 ore i turni di lavoro.

Non è un mistero che la produttività, grazie alla settimana lavorativa corta, aumenti. Secondo alcuni test realizzati da Microsoft in Giappone nel 2019 la produttività dei lavoratori è aumentata del 40% grazie alla chiusura degli uffici il venerdì. E ancora, interessanti sono i risultati di un test condotto sul settore pubblico in Islanda per quattro anni: 2.500 lavoratori della capitale Reykjavík sono passati dalle 40 ore di lavoro a settimana a non oltre 35/36 ore, in questo caso senza tagli allo stipendio. Il rapporto ha rilevato che la produttività dei dipendenti coinvolti (impiegati in uffici pubblici, servizi sociali, scuole materne e ospedali) è rimasta costante o è addirittura aumentata. I dipendenti islandesi hanno anche dichiarato di sentirsi meno stressati, vedendo diminuito il rischio burnout e migliorato il bilancio tra tempo trascorso a lavoro e quello dedicato alla vita privata.

In Italia esistono esempi virtuosi di aziende che hanno introdotto la settimana lavorativa corta, senza tagli sullo stipendio dei dipendenti. È il caso della società milanese di head hunting e consulenza strategica Carter & Benson che da gennaio 2021 ha portato la settimana lavorativa a quattro giorni, sempre con lo stesso stipendio. Ognuno è libero di collocare e gestire le 8 ore libere nella maniera che ritiene più adeguata, non rispettando per forza il paletto del venerdì. C’è un esperimento in corso anche al Sud: Pa Advice, una società leader in Italia da 20 anni nella consulenza strategica alla pubblica amministrazione, nella progettazione di soluzioni informatiche e nella digitalizzazione dei processi amministrativi con sede in Campania, ha lanciato un’iniziativa che coinvolge 43 professionisti con un’età media di 35 anni e che prevede una riduzione dell’orario di lavoro settimanale da 40 a 36 ore a parità di stipendio e risultati da raggiungere.

Come la pandemia ha trasformato l’idea di lavoro

Se siamo arrivati al punto di correre il rischio di rinunciare a parte dei soldi guadagnati pur di lavorare da remoto o di guadagnare tempo libero, è perché qualcosa è cambiato. La pandemia ci ha cambiati. “Ci ha ricordato che esistiamo per fare qualcosa di più rispetto al mero lavoro”, scrive il New York Times in un lungo editoriale intitolato “The Future of Work Should Mean Working Less” (“Il futuro del lavoro deve significare lavorare di meno”), scritto da Jonathan Malesic, autore del libro “The End of Burnout”. I contributi raccolti dai lettori la dicono lunga sulla trasformazione che abbiamo vissuto in un anno e mezzo di pandemia: “Non tornerò mai più a quei viaggi infiniti in macchina fatti ascoltando dei podcast di meditazione per non badare al traffico. Si può lavorare ovunque”, si legge in un uno di questi. E ancora: “Non tornerò ad essere l’ultimo genitore che va a riprendere il figlio a scuola”, “non manderò più email la sera tardi o nel weekend”, scrivono altri. Secondo Malesic, ora la società è pronta a cavalcare un cambiamento e a immaginare di nuovo il lavoro come componente di una vita sana e completa, non la sua rovina. Basta non identificarsi più con la propria professione, capire - nel profondo - che c’è anche altro fuori di noi rispetto alla mansione che svolgiamo.

“Ci è stato detto di trovare la gratificazione e il senso di tutto nel lavoro, una narrazione conveniente per i datori, ma analizziamo da vicino cosa facciamo ogni giorno: molti di noi se non si spezzano la schiena, affogano nelle email. Non è questo lo scopo della vita - scrive Malesic -. Non tutti abbiamo lavori gratificanti e può succedere qualunque cosa, come un problema improvviso di salute, e ci ritroviamo senza. Quindi dobbiamo trovare il nostro scopo al di là del lavoro”. In questo senso, la pandemia è stata un’ottima maestra: “Almeno nelle prime fasi, abbiamo dato la precedenza al nostro benessere rispetto alla produttività, abbiamo limitato i nostri viaggi al supermercato, abbiamo mostrato solidarietà l’uno con l’altro. Quando la pandemia si calmerà ma gli attacchi del lavoro al nostro benessere non faranno lo stesso, possiamo mettere in pratica di nuovo queste virtù”.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.