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Crisi dell'eurozona, le misure di austerity sono la soluzione o una parte del problema?

Nonostante le misure di austerity applicate in forme più o meno radicali nei vari Paesi Europei, l'uscita dalla crisi non sembra ancora vicina per l'Eurozona. I tagli alla spesa sono la soluzione giusta? In esclusiva per Agorà, le opinioni del giornalista economico Oscar Giannino e del Senior Editor de Il Sole 24 Ore Antonio Quaglio.

In collaborazione con IlSussidiario.net
Per saperne di più sul progetto Agorà, cos'è e come è nato, clicca qui.

di Oscar Giannino



Giornalista economico



No, la prima spending review avviata dal governo Monti non basta. E non per demerito del governo tecnico, che ha comunque fatto bene a muovere tale passo. Per comprendere il fondamento della richiesta di chi, come me e i firmatari del manifesto-appello che si può leggere su www.fermareildeclino.it, chiede che ci si inoltri su tagli di spesa pubblica corrente nella dimensione di almeno 6 punti di Pil in 5 anni, occorrono alcune premesse.

La prima equivale alla ragione di fondo della crisi italiana. Che per alcuni si deve all'euro privo di meccanismi cooperativi o ai "cattivi" tedeschi, mentre per chi la pensa come noi si deve all'azzardo morale imperdonabile consumato dalla politica italiana, che ha dissipato i sette punti di Pil l'anno di minori interessi sul debito pubblico regalatici dall'euro per otto anni, preferendo invece alzare spesa, tasse e debito. Ergo se si parte da questo presupposto è l'Italia che deve risolvere il suo problema, vi siano o non vi siano meccanismi di più stretta solidarietà europea, perché ha gli strumenti per farlo.

Per chi la pensa come me, lo strumento è una credibile, pluriennale, massiccia strategia di abbattimento del debito attraverso cessione di attivo patrimoniale pubblico, senza coinvolgere il patrimonio dei privati.
L'attivo pubblico ha capienza tale da risolvere il problema, tutte le obiezioni sono affrontabili a meno di credere che la patrimoniale privata sia preferibile.

La seconda premessa discende dalla prima. Abbattere il debito con gli attivi di Stato significa svincolare il conto economico pubblico dall'onere di realizzare avanzi primari pluriennali al fine di ridurre gradualmente il debito. E' una strategia che si è rivelata fallimentare. Il debito pubblico non è sceso, al contrario realizziamo avanzi primari virtuosi sì , ma con un livello di spesa e tasse sul Pil che ha l'effetto di deprimere ulteriormente l'economia italiana. Di conseguenza, l'individuazione della spesa da tagliare va finalizzata alla retrocessione in meno imposte su lavoro e impresa, non appena pareggiato il deficit e in equilibrio di bilancio.

Terza premessa. Questo è semmai il difetto della prima spending review montiana: il suo ammontare che già è sembrato pesantissimo dopo le quattro manovre triennali del 2011 si è limitato tuttavia a reperire risorse per coprire nuove spese e per non aumentare ulteriormente l'Iva. Finché ci si limita a questo, spesa e tasse in realtà restano a livelli record sul Pil, e la crescita tanto invocata resta una chimera.

Vi è naturalmente un'osservazione pesante, per l'economista. Tagliare spesa pubblica comunque deprime ulteriormente il Pil ed è due volte sbagliato se non criminale farlo in tempi di recessione, dicono i keynesiani e ripetono tutti i giorni i Paul Krugman.  Su questa obiezione si consuma da una parte in dottrina lo scontro tra ortodossi statalisti e marginalisti della scuola austriaca, dall'altra quel che più conta è che una vasta letteratura comparata accumulatasi negli ultimi decenni sui casi più o meno riusciti di turnaround pubblici mostra in maniera inequivocabile che a uscirne meglio sono stati i Paesi meglio capaci di individuare nella propria spesa pubblica i tagli meno recessivi - cioé le incisioni sulle internalità inefficienti - retrocessi in meno imposte.

Soprattutto quanto i livelli di partenza di spesa e tasse erano molto rilevanti rispetto alle medie: ed è esattamente il caso italiano.

Il problema italiano non è la ricetta, ormai nota da anni a chi abbia cognizione della vastissima inefficienza della spesa pubblica e delle conseguenze ammazza-paese dell'attuale pressione fiscale. Il punto vero è trovare partiti e coalizioni politiche capaci di dire la verità agli italiani sugli errori commessi, e di metter mano al tagliadebito- tagliaspesa-tagliatasse con personalità competenti e credibili agli occhi dei nostri partner internazionali e dei mercati.





Approfondimento all'intervendo ti Oscar Giannino:
Forte intervento statale e più welfare: ecco la soluzione alla spirale negativa dell'economia del premio Nobel Paul Krugman

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di Antonio Quaglio




Senior Editor
Il Sole 24 Ore




Lo spread faticosamente stabilizzato a 450 punti (dai 575 di picco il 10 novembre 2011); una recessione a quota -2,4%, forse debordante nel 2013; un debito sovrano oltre quota 120 e una spesa pubblica ancora non intaccata. I critici odierni del governo Monti (compresi molti fra quelli che un anno fa ne hanno invocato e promosso la nascita) partono dalle cifre, sfidando sul suo terreno l’economista-tecnocrate insediato da nove mesi a Palazzo Chigi. E Mario Monti è spesso in difficoltà nel controbattere con l’unico argomento autentico a sua disposizione: senza governo Monti l’Italia sarebbe scivolata in una situazione greca e questo non è successo. Un merito politico dunque, per un esecutivo tecnico: ma tant’è, e a poco serve recriminare al predecessore di Monti e ai suoi ministri.
Silvio Berlusconi ha qualche ragione ad affermare che lo “spread Cavaliere” (variamente stimato fra i 150 e i 300 punti) era – più propriamente – uno “spread di pura speculazione”: come oggi riconoscono lo stesso Monti, la Banca d’Italia di Ignazio Visco e, non ultima, la Bce di Mario Draghi. Ma è anche vero che alla lettera giunta nell’agosto di un anno fa da Francoforte al governo italiano avevano dato ricevuta Berlusconi e il suo super-ministro economico Giulio Tremonti. E il loro governo – politico e sulla carta ancora forte di una larga maggioranza parlamentare – aveva le carte in mano. Per tre sabati ha guastato l’estate agli italiani con l’indecisione: prima una mini-stangata malcongegnata (l’addizionale Irpef); poi un goffo tentativo di intervenire sulle pensioni (lo scorporo delle annualità riscattate all’Inps); infine una risposta para-liberista al pressing per una riforma del mercato del lavoro (lasciata dall’”articolo 8” alle negoziazione fra imprese e sindacati). Forse il conto politico di credibilità estera del premier era già irrecuperabilmente in rosso, ma non può certo essere una giustificazione: in ogni caso quella zona grigia di “non austerità” ha spalancato le porte alla speculazione internazionale, che ha fatto pagare le spese al governo ma anche all’intera Azienda-Paese.
Quest’ultima, è vero, si aspettava qualche regalo – per quanto piccolo – dopo aver trascorso l’inverno chiusa in casa a fare i propri compiti: quelli imposti dal governo Monti. Ancora una volta compiti più politici che tecnici: come quelli più duramente e più tardivamente imposti alla Grecia. Per restare nell’euro (scelta macro-politica) all’Italia purtroppo non basterà una stagione fiscale draconiana e neppure un duro aggiustamento della previdenza. La fiducia (quella che la crisi globale ha distrutto nei mercati finanziari) non si può ricostruire in fretta. Monti al vertice-svolta di Bruxelles di fine giugno che ha aperto i cantieri dei nuovi “scudi” – ha potuto spendere da protagonista il tesoretto di austerità che gli italiani gli hanno credibilmente  accumulato pagando (incredibilmente) l’Imu quasi per intero e accettando quasi senza fiatare la stretta sulle pensioni.
Tutti gli italiani sanno bene – in realtà - che l’exit strategy imporrà nuove austerità: la spending review – cioè il taglio della spesa pubblica – e l’abbattimento dell’evazione fiscale sono le sole precondizioni per l’allentamento della pressione tributaria; e una nuova fase di privatizzazioni (prevedibilmente con qualche sacrificio anche su grandi aziende pubbliche o importanti utilities locali) è l’unica via percorribile per elaborare un serio programma a medio termine di riduzione strutturale del debito. I “compiti a casa” possono durare un’intero corso di studi e prevedere un nuovo esame finale per una sostanziale riammissione all’euro. Nel frattempo - è vero – l’Azienda-Italia deve guadagnarsi ogni giorno il suo pane e burro su mercati globali e alle sue spalle il governo non può far altro che agitare la mano da Francoforte o Bruxelles segnalando la sua sopravvivenza, mentre il sistema bancario (che pure non ha quasi pesato sulle finanze pubbliche durante la crisi) vede ostruiti dallo spread i suoi rubinett creditizi. 
Tra poco più di un semestre, in ogni caso, gli italiani potranno sovranamente decidere alle urne. Lo faranno – con ogni probabilità – dopo la somministrazione di altre dosi di austerità da parte del governo Monti, in fondo al tunnel recessivo, mentre la campagna elettorale renderà inevitabilmente più alte le voci che chiederanno l’abbandono dell’austerità, anche a costo di lasciare l’eurozona. L’opinione pubblica e il tono del confronto politico saranno quindi strutturalmente sfavorevoli al “tecnico austero” e propizio invece ai suoi critici: vedremo quale Italia uscirà dal voto.
(Ps.: su un punto i critici di Monti hanno qualche ragione. Il premier è da trent’anni uno degli opinionisti politico-economici di punta del Paese, ricoprendo incarichi prestigiosi nella Ue: da osservatori strategici come i suoi – o di personaggio di pari calibro come Mario Draghi – ci si sarebbe potuti attendere qualche analisi più cauta sulla lunga corsa della turbo-finanza; e qualche ricetta più celere e drastica allo scoppio della crisi. Ma questa è un’altra storia).