Argento Vivo/8. Olimpiadi 1984. Il diritto di correre
Anche quando sai di perdere devi batterti lo stesso.
Perché l’importante non è vincere o perdere, l’importante è battersi.
(Alekos Panagoulis)
Può una donna correre per oltre 42 km? Oggi la maratona è uno sport praticato da moltissime donne, ma per decenni anche soltanto immaginare di sottoporre una donna a uno sforzo simile era considerato un’eresia.
La paternità dell’idea della maratona è attribuita a Michel Brahl, un filologo francese amico di Pierre de Coubertin, studioso dell’antica Grecia. Propose di inserirla nel programma della prima Olimpiade moderna, quella di Atene del 1896, come rievocazione di un evento epico. La maratona avrebbe seguito infatti un percorso analogo a quello narrato dagli storici greci e compiuto da Filippide nel 490 avanti Cristo per annunciare la vittoria ateniese sui persiani, prima di accasciarsi a terra e morire: un percorso di 40 km, dalla città di Maratona alla capitale Atene. L’idea piacque a De Coubertin e fu accolta con entusiasmo dai greci.
Alla prima maratona olimpica si iscrissero 25 atleti, ma solo 17 si presentarono alla partenza: di questi 13 erano greci e avevano già corso una gara sulla massima distanza ai Giochi panellenici. I 4 atleti stranieri presenti, invece, erano specialisti del mezzofondo e solo uno di loro aveva già corso una volta una maratona. Anche per questo molti furono costretti al ritiro, stravolti dalla fatica. A vincere fu un pastore greco, Spiridon Louis, arrivato da solo all’ingresso nello stadio di Atene, accolto da un boato del pubblico di casa: scesero a bordo pista anche due principi della casa reale greca per scortarlo fino al traguardo. Aveva percorso i 40 km in 2 ore 58 minuti e 50 secondi. Al traguardo arrivarono solo in 10, i primi tre erano greci. Il bronzo, però, venne tolto a Belokas, squalificato per essersi fatto trasportare da un carretto per parte del percorso, e venne assegnato all’ungherese Kellner.
A quella prima storica maratona olimpica in realtà aveva chiesto di partecipare anche una donna greca, Stamáta Revíthi. Di lei si sa poco, era probabilmente vedova, aveva due bambini, ma uno era morto da poco, viveva in estrema povertà ed era in cerca di un lavoro. Arrivava nella città di Maratona in cerca di soldi e fama, convinta di poter competere con gli uomini su quella distanza: per i cronisti la sua divenne subito una storia da raccontare. Ma il barone De Coubertin non era favorevole alle donne nello sport e il regolamento dei Giochi vietava loro di partecipare. Revìthi non fu inclusa, ma non mollò e reagì con un gesto forte, per rivendicare le sue ragioni.
Protagonista della nostra storia è il pregiudizio. Protagonista della nostra storia in realtà è la prima storica maratona olimpica femminile e il lunghissimo percorso per arrivare a disputarla. È la maratona corsa a Los Angeles nel 1984, 88 anni dopo la prima degli uomini. Perché se oggi la maratona è uno sport popolare è per il coraggio di alcune donne, che hanno lottato per sconfiggere quel pregiudizio e conquistare il diritto di correre.
E per questo torniamo indietro, alla prima di queste donne coraggiose. Torniamo a Stamáta Revíthi e alla sua maratona di Atene. Sì perché lei quella maratona la corre davvero. Il giorno dopo la gara maschile, alle 8 di mattina, Revìthi comincia a correre da sola. Al suo fianco, come testimoni, il sindaco di Maratona, un insegnante e magistrato. Dopo 5 ore e 20 minuti Revìthi arriva ad Atene, dove viene fermata da due militari che le vietano l’ingresso allo stadio olimpico, ma registrano e ufficializzano il suo tempo di arrivo. Revìthi chiede un incontro con il responsabile del Comitato olimpico greco perché gli venga riconosciuta ufficialmente la partecipazione alla gara, ma tutto questo naturalmente non avviene.
Per molti anni i Giochi olimpici sono sostanzialmente una questione da uomini. Le prime Olimpiadi aperte alle donne sono quelle di Parigi del 1900: ci sono appena 22 atlete, il 2% del totale e sono ammesse nel croquet, equitazione, golf, tennis e vela. Per le prime Olimpiadi femminili bisogna attendere i Giochi di Amsterdam nel 1928. Parte da lì una lenta crescita verso la parità di genere non ancora raggiunta: a Città del Messico nel 1968 le donne sfiorano il 12% del totale degli atleti presenti, a Los Angeles nel 1984 sono il 23%, a Rio de Janeiro nel 2016 raddoppiano ancora al 45%.
La maratona in particolare resta a lungo un tabù. Troppo impegnativa, troppo stressante, “le donne non sono fisiologicamente in grado di correre per 42 km”, si diceva, “può causare un prolasso dell’utero”, avvertono i medici. Negli anni 60, anni di ribellione femminile urlata a voce alta, in America qualcuna comincia a dimostrare quanto improvvide fossero queste affermazioni.
La prima è Julia Chase-Brand, è la nipote di due suffragette americane. Nel 1960, a 18 anni, si iscrive alla Manchester Road Race nel Connecticut, ma gli organizzatori le impediscono di correre. L’anno successivo ha un’idea. Parte da una delle prime strade che percorrono i concorrenti maschi, per evitare i controlli degli ufficiali di gara, e fa la sua corsa: al traguardo batte 10 uomini e viene accolta dall’ovazione del pubblico, ma il suo tempo non viene registrato. Chase-Brand racconta che “finire quella gara è stato un momento decisivo, ho capito che potevo fare qualunque cosa”.
Qualche anno dopo, 1966, Bobbi Gibb diventa la prima donna a correre, anche se fuori classifica, la maratona di Boston. Non le consentono l’iscrizione, ma anche lei si nasconde dietro a un cespuglio vicino alla partenza e quando passano i corridori si getta nella mischia: gli atleti uomini la incoraggiano, il pubblico la sostiene, il governatore del Massachusetts si congratula con lei all’arrivo: conclude la maratona in 3 ore e 21 minuti, finisce davanti a due terzi dei partecipanti. Bobbi Gibb ricorda: “Stavo correndo per cambiare il modo di pensare alla gente”.
Nel 1967 è la volta di Kathrine Switzer, la prima donna a partecipare ufficialmente alla maratona di Boston.
In realtà non è cambiato nulla e le donne non possono iscriversi, ma lei si segna come K.V. Switzer e gli organizzatori non si rendono conto che è una donna. Si presenta sulla linea di partenza con il suo pettorale: ci sono 740 uomini e 1 donna. Dopo i primi km il direttore di gara la raggiunge in automobile, la spintona, la rincorre, prova a strapparle il pettorale e di impedirle di continuare. Il suo allenatore e il suo fidanzato le fanno scudo, non c’è niente che riesca a fermare la Switzer, che raggiunge il traguardo in 4 ore e 20 minuti. Sono le immagini della Switzer rincorsa dal direttore di gara, pubblicate dai giornali locali, a scuotere l’opinione pubblica.
Parte da lì un movimento di contestazione e rivendicazione che porta ad ammettere le donne alla maratona di Boston nel 1972 e, molto tempo dopo, alla prima maratona olimpica femminile a Los Angeles nel 1984.
Quella di Los Angeles diventa così una gara storica, ma la battaglia per il podio non regala emozioni particolari. La corsa viene dominata dalla statunitense Joan Benoit. Dopo 5 km va in fuga e non la prendono più.
La sua storia racconta la capacità di soffrire e di reagire: comincia a correre sulle lunghe distanze come riabilitazione dopo la frattura a una gamba dopo un incidente sugli sci; poi viene operata al tendine d’Achille, ma torna forte, fortissima, e si va a prendere l’oro a Los Angeles correndo in 2 ore e 24 minuti. Seconda arriva la norvegese Grete Waitz, favoritissima dei pronostici: è la campionessa del mondo ed è la prima donna ad abbattere nel 1979 il muro delle 2 ore e mezzo nella maratona. Ma viene sorpresa dallo scatto iniziale della Benoit, proverà a limare lo svantaggio nella seconda parte di gara, ma non ha il passo per raggiungerla. Terza è la portoghese Rosa Mota, che avrà modo di rifarsi vincendo l’oro a Seul nel 1988.
L’immagine di quella gara che resta indelebile nella mente degli sportivi avviene però fuori dal podio e vede come protagonista la svizzera Gabriela Andersen-Schiess. Ha 39 anni, è un’istruttrice di sci e una mezzofondista, si cimenta nella maratona olimpica ma non punta a una medaglia. E infatti quando arriva allo stadio per il giro finale di pista sono già trascorsi diversi minuti dall’arrivo delle prime, il pubblico ormai è quasi distratto, appagato dall’emozione del fine gara. E invece arriva lei, canottiera rossa, cappellino bianco, e cattura l’attenzione del mondo. È un’atleta esperta, ma ha saltato l’ultimo rifornimento, per disattenzione. Stremata dal caldo di quell’agosto californiano, Gabriela Andersen-Schiess viene piegata da un devastante colpo di calore ed è completamente disidratata quando entra nello stadio olimpico ormai senza forze.
Cammina, barcolla, non riesce ad andare dritta, è inclinata sulla sinistra, appoggia i piedi con difficoltà e sembra poter cadere da un momento all’altro. Ma non cade. La sua è un’agonia che sembra non aver fine, che commuove il pubblico, che la incita metro dopo metro. I medici la seguono da vicino, la affiancano, cercano di intervenire in soccorso, ma lei ha la lucidità di allontanarli con la mano per evitare la squalifica. Era accaduto a un celebre italiano, Dorando Pietri, ai Giochi di Londra nel 1908, squalificato dopo aver tagliato il traguardo per primo per essere stato sorretto negli ultimi mesi dai giudici di gara che lo avevano visto barcollare paurosamente. Gabriela Andersen-Schiess fa ricorso a tutte le energie e alla sua forza di volontà e taglia il traguardo dopo aver impiegato addirittura 5 minuti e 44 secondi per compiere i 400 metri finali. Appena varcata la linea d’arrivo, viene presa in braccio dai medici e portata in ospedale, dove fortunatamente si riprende in poche ore.
Quella immagine della maratona fa il giro del mondo e riaccende alcune voci sull’opportunità di sottoporre le donne a uno stress fisico simile. Ma ormai la breccia è varcata e le donne conquistano il loro diritto di correre la gara principe dei Giochi olimpici. Se le atlete di oggi corrono con tempi impressionanti sulla distanza dei 42 km e 195 metri, se la britannica Paula Radcliffe ha portato il primato a 2 ore e 15 minuti e la keniana Brigid Kosgei lo ha abbassato a 2 ore e 14 minuti, è anche per merito di chi prima di loro non si è piegato al pregiudizio che non fosse un affare da donne.
Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.