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Aumentano le dimissioni. E forse non è un cattivo segno

Copy space shot of confident mid adult businesswoman holding a carboard box with her personal belongings and office supplies while standing in her new office after getting hired. (Photo: fotostorm via Getty Images)
Copy space shot of confident mid adult businesswoman holding a carboard box with her personal belongings and office supplies while standing in her new office after getting hired. (Photo: fotostorm via Getty Images)

Quando in tre mesi quasi 500mila lavoratori decidono di dimettersi, come è avvenuto tra aprile e giugno, è evidente che qualcosa si sta muovendo nel mercato del lavoro. Dimettersi volontariamente significa rinunciare al proprio posto di lavoro per qualche ragione. Ora se questo ragionamento portasse all’assicurazione di avere non solo una nuova occupazione, ma anche retribuita meglio, il fenomeno delle transizioni potrebbe segnare l’uscita, seppure iniziale, dalla logica della necessità del posto fisso a tutti i costi. Sarebbe una buona notizia per i lavoratori, che guadagnerebbero di più, e anche per le imprese, che avrebbero meno vincoli. Ma non siamo gli Stati Uniti prima del Covid, dove il 40% delle assunzioni era costituito dai lavoratori che passavano da un’impresa a un’altra. L’americanizzazione di questo fenomeno ha senso, anche se non completamente, se si prendono in esame le cause: dal burnout, l’esaurimento da lavoro, alla volontà di avere un’occupazione più flessibile in termini di luogo e orari. Ma il salto dalle dimissioni a un sistema job to job, cioè lascio un lavoro e ne prendo un altro, è tutto italiano e ancora indefinito: le rigidità del mercato del lavoro potrebbero frenare non solo l’approdo a un nuovo lavoro, ma anche l’aumento dei salari e della produttività.

Quello delle dimissioni in blocco potrebbe insomma essere una fiammata che fa da preludio a una tendenza, ma anche un semplice rimescolamento che non stacca il Paese dalla preferenza per il posto a vita. L’imprevedibilità del fenomeno non lo ridimensiona, tutt’altro. Non solo perché è nei numeri, a differenza di previsioni massimaliste - la valanga di licenziamenti dopo la fine del blocco - poi smentite dai fatti o di narrazioni totalizzanti, come i lavoratori introvabili, che non tengono conto di elementi fondamentali, a iniziare dai salari bassi e dalla saturazione dei profili lavorativi con competenze elevate. Huffpost ha scelto di farsi accompagnare in questa analisi da quattro esperti del mercato del lavoro (Andrea Garnero, Maurizio Del Conte, Massimo Taddei e Francesco Armillei) e da una paper pubblicato dalla Banca d’Italia, che già prima della pandemia si era interrogata sul significato di questi movimenti.

L’incrocio tra i colletti bianchi e le imprese più giovani

Partiamo dallo studio realizzato per Bankitalia dalle economiste Eliana Viviano e Marta De Philippis insieme al collega Clémence Berson per la parte relativa alla Francia. Siamo nel 2017 e negli Stati Uniti si registra una crescita salariale importante a livello aggregato a fronte di un’inflazione bassa. Gli economisti, che fino ad allora non avevano considerato molto il legame tra le transizioni lavorative e l’aumento dei salari, iniziano a scavare. Scoprono che una parte importante di questo incremento aggregato era da ricondurre proprio ai passaggi da un lavoro a un altro. E scoprono soprattutto che il fenomeno è stratificato, con il 40% delle assunzioni costituito proprio dalle transizioni. Insomma una parte significativa dei lavoratori aveva deciso di dimettersi, ancora di cambiare lavoro per qualche motivo di convenienza e questo processo si traduceva spesso in un salario più alto.

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Il riferimento agli Stati Uniti è importante per alcune analogie con il mercato italiano, ma anche per marcare le differenze. Dentro il poaching - la dinamica in cui le imprese si rubano tra di loro i lavoratori migliori invece di pescare dalla disoccupazione o dal lavoro temporaneo - sono coinvolti di più i lavoratori con mansioni più elevate. A spostarsi è il colletto bianco, non quello blu. Lo studio della Banca d’Italia mette in evidenza anche un altro fattore comune tra Stati Uniti e Italia: sono le imprese più giovani a prendere i lavoratori con competenze più alte e a offrire loro un’occupazione di tipo permanente.

Ma veniamo ai dati di aprile-giugno, cioè alle dimissioni volontarie di 484mila lavoratori (292mila uomini e 191mila donne), su un totale di 2,5 milioni di contratti cessati. Il paper aveva già messo in conto una dinamica attesa perché il fenomeno è prociclico: le transizioni aumentano quando riparte la domanda di lavoro. E l’Italia, che ha registrato un’accelerazione importante della domanda di lavoro a partire dalla primavera, insieme alla scomparsa o comunque all’attenuazione degli elementi negativi sull’evoluzione della congiuntura, è proprio in questa fase. Insomma che aumentassero le dimissioni era nelle cose. Il punto che guarda a quello che potrebbe accadere è un altro: sono aumentate di più o di meno rispetto a quello che si sarebbe atteso data la fase ciclica di forte espansione del mercato del lavoro? Alcune evidenze dicono che sono aumentate un po’ di più, anche se va tenuta in considerazione anche un’altra ipotesi e cioè che le imprese, mosse dalla necessità di cambiare il loro modello di business, stiano iniziando a pescare lavoratori qualificati tra di loro.

Salari e produttività più alti?

Un aumento delle dimissioni si è registrato anche in passato, ma se si guarda all’esito dal punto dei vista dei salari non è andata bene per chi ha cambiato lavoro. A differenza degli Stati Uniti, infatti, l’incremento salariale contrattato in Italia è stato modesto, anche se non soprattutto perché dipendeva da una fase congiunturale non esaltante. Un conto è spostarsi quando c’è una disoccupazione bassa, un altro quando la stessa disoccupazione registra valori meno importanti.

L’altra questione aperta è se questa transizione si tradurrà in aumento della produttività. Se non si verificasse, l’impresa di destinazione avrebbe un incremento del costo del lavoro e potrebbe aumentare i prezzi, spingendo verso l’alto l’inflazione salariale, con tutte le conseguenze negative che questo comporterebbe.

La rigenerazione industriale (fuori le imprese che vivacchiano) per un vero salto

“Il fenomeno delle dimissioni volontarie - dice Andrea Garnero, economista dell’Ocse, attualmente in sabbatico di ricerca - rimette al centro l’importanza di guardare al mercato di lavoro come a un fattore dinamico, non statico, anche in un Paese come l’Italia che di dinamico ha poco se lo si confronta con quello degli Stati Uniti”. Dietro uno 0,1% di variazione del tasso di disoccupazione ci sono migliaia di lavoratori che hanno un perso un lavoro, ma anche trovato, e c’è anche chi si è spostato da un’occupazione a un’altra. I movimenti sono più forti dei numeri in sé.

Garnero inquadra la vicenda delle dimissioni all’interno di una fase di dinamismo dell’economia e del mercato del lavoro: “Ci sono più assunzioni e c’è un rimescolamento tra alcuni settori: i tecnici-informatici, insieme agli infermieri e ai conduttori di camion, sono interessati da una domanda importante”. Ci sono anche altri due scenari, non alternativi tra di loro e neanche con il primo. “Il meno interessante di tutti - spiega - è la possibilità che ci sia una sorta di congestione, un traffico post riaperture: alcuni lavoratori si sarebbero dimessi nel 2020, ma hanno rinviato questa scelta per la pandemia”. Il terzo scenario riguarda la riconsiderazione delle priorità di vita legate a ragionamenti positivi (scelgo di concentrarmi volontariamente sulla famiglia) o negativi (devo concentrarmi sulla famiglia perché mia moglie ha un problema).

La prospettiva di queste dinamiche è: si torna indietro esattamente al punto di prima o un po’ più in alto? “Se questo salto - dice ancora Garnero - diventa stratificato, stabile, allora diventa un fattore positivo, altrimenti è solo un aggiustamento per poi tornare agli equilibri di prima”. Per l’economista dell’Ocse sono centrali due fattori: le riforme e gli investimenti del Pnrr e una cosiddetta pulizia di mercato, cioè una rigenerazione del mondo delle imprese che passa dall’uscita delle imprese poco produttive, che vivacchiano e sopravvivono alla giornata. La rottura che potrebbe generare salari più alti e una produttività maggiore è da rintracciare in un processo che registra una creazione continua di nuove imprese perché il fattore di crescita occupazionale è sempre nelle nuove imprese.

Il processo non è scontato anche perché - è il ragionamento - “dobbiamo recuperare i ritardi rispetto al pre pandemia, sia in termini di posti di lavoro che ancora mancano sia in termini qualitativi. L’Italia non ha ancora raggiunto gli obiettivi sull’occupazione femminile fissati nella strategia di Lisbona del 1999 e la pandemia ha peggiorato questa situazione. Così come sono stati evasi gli obiettivi sui giovani.

Da un lavoro all’altro con una rete di sostegno e accompagnamento precaria

Le dimissioni sono un vero e proprio salto considerando anche che chi si dimette non ha diritto all’indennità di disoccupazione. Ma l’approdo a un altro lavoro non è scontato. Maurizio Del Conte, professore di Diritto del lavoro alla Bocconi, già presidente dell’Anpal, inquadra così la questione: “C’è un problema di insufficienza della rete di sostegno e di accompagnamento nel job to job. I centri per l’impiego e il piano Garanzia di occupabilità per i lavoratori sono costruiti per ricevere e occuparsi dei disoccupati, ma molto meno per dare una risposta a una pronta rioccupazione. L’idea resta sempre la stessa: ti prendo, ti attrezzo e spero che tu possa avere una prospettiva”.

Dal possesso del lavoro fisso alla mobilità. Il job to job è anche un tema culturale

Del Conte individua anche un altro dato strutturale: la vischiosità di un mercato dove le transizioni da lavoro a lavoro sono complesse. “La nostra tradizione - spiega - è quella del job property, del possesso del posto di lavoro inteso come un bene. Tutte le tutele che si sono create intorno a questo concetto sono maturate nel contratto più che nel mercato. Ora però ci troviamo in un mondo che è cambiato: abbiamo puntato tutto sulla stabilità all’interno del contratto, con le norme sui licenziamenti, ma abbiamo trascurato l’aspetto della mobilità volontaria”.

C’è anche un tema culturale. E questo implica che se quello italiano potrà diventare un mercato del lavoro maturo, capace cioè di essere tarato anche sulle transizioni volontarie, allora dovrà essere capace di cambiamenti necessari. Sempre Del Conte: “Dovremmo ripensare al tipo di servizi che offriamo in termini di incrocio tra domanda e offerta: oggi le agenzie del lavoro private pesano per 2-3 punti percentuali sul totale dell’incontro tra domanda e offerta”.

Il fenomeno delle transizioni resta sempre un fattore positivo perché “può aumentare il tasso di coerenza tra il percorso di studi e la nuova destinazione lavorativa, sarebbe un movimento dal basso verso una migliore allocazione delle competenze nel mercato del lavoro”. La traduzione di questo ragionamento è: non vado a lavorare in un’impresa perché è l’unico posto che mi offrono, ma perché è quello migliore per me. Una sorta di rivoluzione considerando che gli italiani sono spesso insoddisfatti, lavorativamente parlando, perché impiegati in occupazioni poco coerenti con quello che hanno studiato.

Il fattore della liquidità accantonata durante la pandemia

Ma se chi si dimette non ha diritto all’indennità di disoccupazione e se un nuovo lavoro non è alle porte, come si fa a fare un salto nel vuoto? Francesco Armillei, assistente di ricerca alla London School of Economics, è stato tra i primi in Italia a occuparsi del tema delle dimissioni su lavoce.info. “Prima di porsi qual è la conseguenza, bisogna capire se ci sarà un job to job”. I dati disponibili non permettono di avere una visione d’insieme: bisognerà capire se il caso del Veneto, dove si è registrato un aumento dei ricollocamenti entro 30 giorni, è un’eccezione o invece la spia di una tendenza nazionale. “I dati del Veneto - dice Armillei - ci possono indirizzare verso un sì perché è difficile che i lavoratori facciano un salto nel vuoto”. A incoraggiare questo salto - al momento è solo un’ipotesi che andrà verificata con dati aggiuntivi - può aver contribuito la liquidità che molti hanno accantonato durante la pandemia per via della contrazione dei consumi. Per l’economista è fondamentale anche la lettura retrospettiva delle dimissioni: “Non verso qualcosa, ma come il risultato di qualcosa che è alle spalle, a un accumulo di fattori pregressi”.

Il realismo italiano del job to job

L’elemento culturale, evidenziato da Del Conte, è ripreso da Massimo Taddei, economista che si occupa di temi del lavoro e componente del desk de lavoce.info. “In partenza - dice - ci sono una serie di difficoltà: il sogno del posto fisso è una questione culturale, ma anche di convenienza economica perché ad esempio conviene fare lo stesso lavoro, rimanendo in costanza retributiva, e assicurarsi così una pensione migliore”. Gli incentivi per cambiare lavoro non sono moltissimi anche perché “la crescita della retribuzione dipende soprattutto dall’anzianità aziendale”.

Oggi per i più giovani e per i più anziani ci sono forme di flessibilità che non c’erano fino a qualche anno fa non esistevano, ma il tentativo di cercare una retribuzione migliore non è prevalente. “Quello che si cerca - spiega Taddei - è soprattutto un lavoro più soddisfacente e che permetta una maggiore flessibilità”. La possibilità di arrivare a un salario più alto intercetta più chi ha competenze elevate, soprattutto tra i giovani: “Se si hanno le competenze si può ambire a qualcosa di meglio, soprattutto se in precedenza si è accettato un posto sottoqualificato”.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.