Autostrade/Benetton: si cambia, ma nulla è cambiato

Gli umori dei soci alla vigilia del passaggio decisivo dicono che l’assemblea sarà una formalità da sbrigare in dieci minuti. Poco conta se qualcuno dentro Atlantia non è d’accordo: i Benetton, insieme ad almeno altri due azionisti, hanno la maggioranza di Autostrade per l’Italia e hanno deciso che è arrivato il momento di venderla. Il sì dell’assemblea chiuderà quella rottura con lo Stato che si è aperta quasi tre anni fa, all’indomani del crollo del ponte Morandi. Servirà un po’ a tutti: alla famiglia di Ponzano Veneto che non solo proverà a svincolarsi dall’etichetta degli imprenditori spietati, ma potrà anche usare i soldi dell’incasso per nuovi business; alla politica che rivendicherà coraggio e capacità per aver riportato le autostrade sotto il controllo “pubblico”.
La vicenda però non è chiusa: la grande questione che l’ha generata - l’incuria nella manutenzione - non si risolve con il cambio di proprietà.
Partiamo dalla coda per capire perché la classe politica, tutta, si è lasciata sfuggire un’occasione e cioè uscire dalla retorica della tragedia che non deve ripetersi mai più. I 5 stelle festeggeranno la cacciata dei Benetton, abuseranno del termine nazionalizzazione per dimostrarsi coerenti con lo slogan del “ritorno delle autostrade in mano agli italiani”. Poco importa se quando si è passati dai festeggiamenti ai fatti, cioè alla trattativa, la nazionalizzazione pura si è trasformata nella vendita a una cordata guidata sì da Cassa depositi e prestiti, ma con dentro Blackstone e Macquarie, soggetti privati, fondi corsari. E poco importa se si è infranto anche il tabù di “mai un euro ai Benetton”. A sua volta il Pd potrà dire che ha costruito l’accordo con i Benetton, rif...
Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.