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Avventure in elicottero. La testimonianza di un pilota

Alla base c’è una certa eccitazione. Era da qualche tempo che vedevamo degli strani personaggi aggirarsi tra gli hangar e gli uffici. Decisamente dei civili e sempre con gli occhiali scuri. Cercavano forse di farsi passare per gente dei servizi o della sicurezza ma a noi era chiaro che non lo erano. Gessati troppo eleganti, niente auricolare e soprattutto quell’aria da pesci fuor d’acqua.

Finalmente ci hanno radunati e ce li hanno presentati. Prima però ci hanno fatto firmare una montagna di carte con cui ci siamo impegnati al silenzio assoluto. Questi signori, ci hanno detto, sono funzionari di importantissime istituzioni finanziarie internazionali. Vi prepareranno a una missione speciale. Voi siete i migliori dei vostri corsi di volo, avete tutti anni di esperienza e siete addestrati ai teatri di guerra, alle operazioni di soccorso e di ordine pubblico e al trasporto dei civili. Ma qui si tratta di qualcosa di assolutamente nuovo. Attenzione, però. La missione non è ancora certa, e in ogni caso non conosciamo ancora i tempi e i modi. Soprattutto non è chiaro se si tratterà di un una tantum o se diventerà per voi un’attività regolare, quasi di routine. Voi dovete essere comunque pronti ed è per questo che vi verrà data una preparazione teorica e motivazionale. Verrete inquadrati in un corpo scelto e guadagnerete bene. Un giorno sarete anche molto popolari e benvoluti, ma sappiate fin da ora che l’addestramento sarà intenso e severo.

Ed è così che è iniziato il corso più strano e affascinante che ci sia mai capitato di seguire. Hanno iniziato in modo leggero e subliminale, con il filmato di D’Annunzio che nell’agosto 1918 getta volantini irredentisti su Vienna dal suo aeroplanino e con la scena del Batman del 1989 in cui Jack Nicholson getta dollari come fossero coriandoli da un carro da parata lungo le strade di Gotham City. È qui che quelli degli elitaxi, che si sono messi in proprio, hanno fatto soldi e leggono la stampa economica, hanno fatto la faccia di chi aveva già capito tutto.

La prima lezione ce l’ha tenuta uno storico. Vi parlerò, ha esordito, del rapporto tra sovrano e moneta nella storia. Fino alla fine del XVII secolo il sovrano ha deciso da solo quanta moneta emettere. Certo, c’era il vincolo del valore intrinseco delle monete, il loro contenuto di oro o argento, ma il sovrano poteva imbrogliare le carte e imporre ai sudditi di accettare monete il cui contenuto d’oro era stato diluito. I paesi che avevano rifiutato di ricorrere a questo stratagemma, come l’Inghilterra, trovarono a un certo punto comodo appoggiarsi su una banca, in questo caso la Bank of England, per farsi periodicamente rifinanziare i debiti di guerra, offrendo al pubblico titoli irredimibili con un buon tasso in cambio dei vecchi titoli redimibili. Per qualche tempo la banca centrale conservò una certa autonomia, ma già con la Rivoluzione Francese e le guerre che ne seguirono i sovrani si presero il pieno controllo dei loro istituti di emissione.

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Fino al 1951 le banche centrali furono in pratica uffici distaccati dei rispettivi ministeri del Tesoro. Furono sempre frequenti i casi in cui le banche centrali finanziavano il disavanzo del Tesoro, risparmiando a questo il ricorso al debito pubblico. Nel (Londra: 0E4Q.L - notizie) 1951, superati gli squilibri creati dalla guerra e riportato il debito pubblico a proporzioni accettabili, il Tesoro americano e la Federal Reserve firmarono un’intesa in base alla quale la Fed non avrebbe mai più finanziato direttamente il Tesoro. Questa separazione, adottata per responsabilizzare il sovrano e costringerlo ad affrontare il mercato senza la comoda rete protettiva della banca centrale, fu poi adottata in tutti i paesi industrializzati ed è oggi regola generale.

Bella cosa, direte voi, ma dal 1951 a oggi il debito pubblico non ha fatto che crescere e si è riportato in molti paesi sui livelli che in passato erano stati tipici dei tempi di guerra. Dopo la crisi del 2008 lo stock è salito di altri 20-30 punti percentuali su Pil (minori introiti fiscali e maggiori spese per gli ammortizzatori) ed è ancora gestibile solo perché i tassi da pagare sono a zero o negativi. Ma che succederebbe se ci fosse un’altra crisi, anche più piccola di quella del 2008?

Lo avete già capito, si tornerà al mondo pre-1951. I dettagli ve li spiegheranno gli altri docenti, ma intanto siano chiare due cose. La prima è che non è storicamente vero che la monetizzazione del debito genera sempre inflazione, così come non è vero che tutti quelli che oggi bevono un bicchiere di vino ai pasti finiranno i loro giorni da alcolizzati. Tutti ricordano i guai della Germania del 1923, quando 2300 tipografie lavoravano giorno e notte per stampare marchi e tutti hanno in mente lo Zimbabwe degli ultimi due decenni. Pochi però ricordano il Giappone degli anni Trenta, che evitò la deflazione e la crisi con svalutazione e monetizzazione di nuova spesa pubblica. E nessuno cita il Canada, che dal 1935 al 1975 fece più volte ricorso alla monetizzazione dei programmi di investimenti pubblici senza incorrere in inflazione aggiuntiva.

Spesso del resto non si distingue come si dovrebbe l’inflazione creata dalla banca centrale e quella creata dalle banche ordinarie attraverso il moltiplicatore del credito. A chi fa giustamente notare come il credito bancario finisca spesso con il creare inflazione nell’immobiliare e in borsa si potrebbe rispondere, come fa Adair Turner, che la futura monetizzazione del debito pubblico potrebbe essere bilanciata da un inasprimento, questa volta pienamente giustificato, delle ratio patrimoniali delle banche ordinarie.

La seconda cosa che è importante capire è che, mentre storicamente la monetizzazione è stata imposta alle banche centrali dai sovrani, quella che si sta discutendo in questo periodo è una monetizzazione decisa autonomamente dalle banche centrali su considerazioni generali di politica monetaria. È una bella differenza.

Il giorno successivo, dopo avere dormito sonni agitati, siamo stati travolti dalla lezione di un funzionario di una banca centrale non meglio specificata. Ci ha parlato del Quantitative easing e dei suoi limiti. Con il Qe, ci ha raccontato, la banca centrale compra debito pubblico ma non lo estingue. Il Qe è presentato come un’operazione temporanea. I titoli comprati verranno un giorno venduti. Che sia vero o che sia una finzione (chi parla più di exit strategy?), al pubblico restano comunque bene impressi i dati allarmanti sullo stock di debito pubblico. Il 270 di debito Pil fa paura ai giapponesi e il 133 non rassicura certo gli italiani.

Scatta allora, in giapponesi, italiani e molti altri, la cosiddetta equivalenza ricardiana, ovvero la consapevolezza che questo debito un giorno andrà pagato (verosimilmente con nuove tasse) per cui, invece di gioire e spendere per i tagli di tasse di oggi, sarà il caso di risparmiare quello che ci viene dato oggi perché ci verrà tolto domani.

Sia chiaro, Ricardo (Londra: RCDO.L - notizie) era un uomo sobrio e razionale che viveva in mezzo a uomini sobri in un’epoca sobria. Oggi, se vi arrivasse a casa un assegno di 10mila dollari dal governo, molti di voi correrebbero a spenderlo o a giocarlo ai dadi senza pensare al corrispondente aumento del debito pubblico (brusio di consenso in sala). Nel sobrio Giappone e tra i ricchi di tutto il mondo l’equivalenza ricardiana funziona però benissimo anche al giorno d’oggi ed è per questo che il Qe fatica a fare crescere la propensione al consumo.

Pensate invece che cosa succederebbe se il 270 giapponese di debito Pil, in mano per metà a alla banca centrale e ad altri enti pubblici, venisse da domani abbassato al 135 grazie alla cancellazione dei crediti della Banca del Giappone. Tutti si sentirebbero un grosso peso in meno e sarebbero più pronti a spendere. Ci sarebbe anche lo spazio per aumentare di nuovo la spesa pubblica di 5 o 10 punti percentuali senza creare particolari problemi.

Certo, qualcuno farebbe notare che la banca centrale si troverebbe a quel punto con un grosso buco, ovvero con un patrimonio negativo, e che questo equivarrebbe più o meno alla fine del mondo. Passerebbe però un giorno, ne passerebbero due e si vedrebbe che la vita continua come prima (meglio di prima) anche con una banca centrale in default tecnico. Tutti continuerebbero ad accettare volentieri le banconote emesse dalla Banca del Giappone, che potrebbe comunque sistemarsi i suoi conti creandosi nuovi yen e depositandoseli sull’attivo.

Ma come, si dirà, ci deve pur essere il trucco da qualche parte, non esistono i pasti gratis. E invece no. Nelle dosi giuste 100 dollari di monetizzazione funzionano molto meglio di 100 dollari di Qe. Il solo problema, non piccolo, è che i governi, alleggeriti da una parte del debito, non avrebbero incentivi per rendere più efficienti se stessi e il paese che governano. Ma questa pigrizia la vediamo già oggi con il Qe, che ha di fatto deresponsabilizzato le classi politiche.

E allora, se ci dobbiamo fare di qualcosa, insomma, che sia almeno divertente e non la tristezza infinita dei tassi negativi.

Il terzo giorno ha parlato un esperto di questioni legali. I politici, ci ha detto, non si tagliano mai i ponti dietro le spalle e il divorzio tra governi e banche centrali non è mai stato reso irreversibile e totale come sembra. Per noi avvocati è un gioco da ragazzi trovare le possibili scappatoie nella legislazione esistente. Il Regno Unito, del resto, ha utilizzato nel 2008, una clausola che permette alla banca centrale di anticipare soldi al Tesoro senza una scadenza precisa. Il Tesoro americano, che batte moneta (ma non stampa banconote), potrebbe dal can Autore: Alessandro Fugnoli Per ulteriori notizie, analisi, interviste, visita il sito di Trend Online