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Banche italiane fragili. Ma il resto d'Europa non è meglio

L’Europa Unita non lo è. Adesso (Londra: 0N5I.L - notizie) , in passato e con ogni probabilità non lo sarà nemmeno in futuro. Facile perciò giustificare chi, dall’Europa, vorrebbe andarsene, non tanto per un senso di indipendenza che in realtà non porterebbe grandi vantaggi economici, quanto per sfuggire alla miriade di regole che Bruxelles tende a rendere sempre più stringenti.

La situazione in Europa

La volontà di rendere omogenea una situazione che omogenea non potrà mai essere, ha portato la Bce (Toronto: BCE-PA.TO - notizie) a mettere in sicurezza (giustamente) il sistema bancario dell’intero continente, dimenticando però che le banche europee sono particolarmente legate all’economia reale e che questa, oltre ad essere in crisi ormai da quasi 10 anni, è anche diversa da nazione a nazione. Cosa significa questo? Che se in Italia il problema si chiama Non performing loans, ovvero crediti in sofferenza per circa 360 miliardi, in Germania e in tutta l’Europa del Nord invece prende il nome di Derivati, così come per la Spagna, il Portogallo e la Grecia a suo tempo ci fu il caso della bolla immobiliare. Insomma, paese che vai sofferenza bancaria che trovi.

Iniziamo dalla Francia

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Difficile perciò riuscire a mettere sullo stesso piano questa situazione e dare le stesse regole per tutti pretendendo di farle rispettare. Un esempio arriva proprio dai capitali usati per salvare le banche, quegli aiuti di stato oggi tanto temuti dalla Bce: i numeri dell’Eurosta vedono interventi in Italia per poco più di 1 miliardo di euro tra il 2007 e il 2014 contro i quasi 240 della Germania, i 162,5 di Londra e e i 52,5 della Spagna. Inutile ribadire che Roma è colpevole: troppe inefficienze sul fronte normativo, troppo forte la pressione su quello del debito pubblico e, volendo focalizzarsi solo in ambito bancario, troppo numerose le banche, le filiali, i costi soprattutto nell’era dell’home banking. Ma com’è la situazione nel resto d’Europa? In Francia il panorama è occupato da 4 giganti: BnpParibas, Societe Generale (Swiss: 519928.SW - notizie) , Credit Agricole (Swiss: ACA.SW - notizie) , Gruppo Bpce, a sua volta specchio di strategie che oltralpe guarda più alla forza del grande nome che all’efficienza di molti, piccoli protagonisti. Facile pensare, perciò, che in Francia si ragioni col principio del Too big to fail, soprattutto per le banche.

La Germania

Grandi istituti anche in Germania dove però si è scelto di difendere, a spada tratta, i piccoli e piccolissimi rappresentanti del credito come le Banche cooperative (rafforzatesi con la crisi), le Sparkassen (casse di risparmio di fatto in mano alle autorità cittadine e locali) e le Landesbanken(in mano alle Lander, ovvero le grandi regioni tedesche) queste ultime particolarmente esposte sul fronte degli investimenti a rischio a livello internazionale. Tutti questi, però, sono anche un ottimo bacino di voti e di interessi politici locali. Noti sono gli interventi di stato da parte di Berlino per salvare i grandi protagonisti i quali, nel tentativo di una stabilizzazione anche sul lungo termine, hanno deciso per una politica di fusioni: Deutsche Bank (Londra: 0H7D.L - notizie) con Post Bank, Commerzbank (Xetra: CBK100 - notizie) comprò Dresdner. Tutto inutile o quasi visto che poi si sono dovuti riconoscere altre falle nei conti che hanno portato a vendita di asset e a iniezioni di capitale pubblico. Commerzbank oggi vede il 17% in mano allo stato tedesco e Deutsche bank ha una lunga sequela di punti deboli, a cominciare dai 6,8 miliardi di perdite causati in gran parte dalle spese legali per lo scandalo Libor (e affini), fino alla bomba dei derivati, una spada di Damocle pari a 20 volte il Pil tedesco e a 5 volte quello dell’Eurozona.

E in Gran Bretagna?

Londra ha stupito il mondo intero con il referendum nel quale decideva di uscire dall’Europa. Ma il suo sitema bancario non è poi così diverso nei difetti. Per salvare gli istituti dalla crisi, il governo decise a suo tempo, tra il 2007 e il 2010, di entrare in scena con l’acquisto dell’83% di Royal Bank of Scotland (Londra: RBS.L - notizie) , (un investimento pari a 46 miliardi di sterline che lo scorso anno aveva già perso di valore arrivando a 30 miliardi), del 41% di Lloyds (una partecipazione che al 2015 risultava non superiore al 22% e che, considerando i costi del capitale iniziale di 20 miliardi di sterline, ha registrato una perdita netta di 530 milioni secondo i dati del National Audit Office). A dare il colpo di grazie alla volontà del governo di liquidare le posizioni all’interno delle banche è stata l’ultima tempesta post-Brexit che ha fatto crollare il valore delle azioni. Anche loro aspetteranno che le acque si calmino.

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