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Tre banche un soldo

Come si è arrivati al dissesto delle banche di provincia, che fino a pochi anni fa andavano a gonfie vele? Sono state gestite essenzialmente come centri di potere e hanno finanziato attività immobiliari di ogni tipo, senza adeguate garanzie. Come si è sgonfiata la bolla del credito immobiliare. In evidenza

Un favore a Bankitalia e governo

Tre banche un soldo, come alle fiere di paese di una volta. È questo il prezzo a cui Ubi (Taiwan OTC: 6562.TWO - notizie) si accinge a rilevare quello che resta di Banca Etruria, Banca Marche e Cassa di risparmio di Chieti. Un dato che la dice lunga sullo stato di salute del sistema bancario: le banche operavano (soprattutto le prime due) nel cuore della provincia ricca italiana, quella che ha un reddito pro-capite fra i più alti d’Europa, quella che giustamente consideriamo la spina dorsale del nostro sistema produttivo. Insieme a Cariferrara, componevano la “banda dei quattro”, cioè delle banche di provincia che alla fine del 2015 sono state poste in amministrazione straordinaria, ripulite di una parte notevole dei crediti deteriorati, trasferiti a una bad bank e affidati per un anno alle cure dell’ente di risoluzione delle crisi. Ma sia alla prima scadenza per la vendita fissata dalla Commissione europea alla fine di aprile 2016, sia alla proroga al 30 settembre, nessuna offerta vincolante si era materializzata.

Alla fine, solo Ubi si è dichiarata disponibile all’acquisto, ma ha escluso tassativamente di occuparsi di Cariferrara. E – va detto subito – non può certo essere accusata di approfittare della situazione. Al contrario, fa un grosso favore alle autorità e al governo perché l’integrazione sarà tutt’altro che facile e indolore.

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La bolla del credito immobiliare

La domanda che sorge spontanea è: come è stato possibile portare al dissesto banche che solo dieci anni fa erano considerate altrettanti punti di forza del localismo bancario e macinavano utili a tutto spiano? Non era certo facile ridurre in questo stato miserrimo tanti istituti in un periodo di tempo relativamente breve.

La risposta è molto semplice: tutte le banche entrate in crisi (quelle citate, ma anche le popolari venete, Carige e via bancarottando) sono state gestite essenzialmente come centri di potere e dunque erogavano credito in funzione degli interessi di una parte consistente dell’establishment locale, soprattutto perché hanno cavalcato con incosciente disinvoltura la fase favorevole alla crescita degli impieghi bancari che si è aperta con l’avvio dell’euro.

Anche in Italia gli impieghi bancari sono cresciuti a un ritmo molto più alto del Pil nominale a partire dal 1999 e hanno finanziato in gran parte attività immobiliari di ogni tipo, promosse da vecchie volpi del settore come i Ligresti o dai giovani rampanti (i “furbetti del quartierino” copyright Ricucci) che ambivano anche a entrare nei prestigiosi salotti di Mediobanca (Milano: MB.MI - notizie) o del Corriere della Sera.

In provincia si sono finanziati generosamente i centri commerciali che devastavano le periferie (gli “spendodromi” come li definisce Stefano Benni) oppure si sostenevano finanzieri estranei alla zona d’azione tipica della banca, ma tutti con la loro brava connessione al potere che conta per acquisire meriti, nella consapevolezza che prima o poi il favore sarebbe stato restituito. Ma una gran parte delle nuove iniziative si è tradotta in colossali invenduti e bagni di sangue finanziario.

C’è stata anche in Italia una bolla del credito immobiliare che ha cominciato a sgonfiarsi nel 2005 sotto l’incalzare degli scandali e delle inchieste della magistratura e che non poteva che aggravarsi con la crisi finanziaria generale. Un dato per tutti: dei 174 miliardi di sofferenze lorde al settembre 2016 (ultimo Bollettino statistico della Banca d’Italia), quasi la metà (il 41,7 per cento) sono di competenza del settore delle costruzioni e delle attività immobiliari che invece pesano per poco più di un quarto (26, 3 per cento) sui crediti “vivi”. La rischiosità delle attività immobiliari è cioè doppia della media. Non basta: poco più della metà di quei crediti è assistito da garanzia reale (il 56, 5 per cento), il che è una chiara indicazione di quanto rischio le banche abbiano deciso di prendere.

Insomma i dati nazionali dimostrano che c’è stata anche in Italia una potente allocazione sbagliata del credito a favore delle attività immobiliari, che è stata una delle principali cause, se non la principale, dei diffusi dissesti delle banche di provincia. Ma, poiché queste rappresentano comunque una frazione non maggioritaria del sistema, si possono trarre indicazioni poco rassicuranti sull’efficienza delle risposte che le banche italiane hanno saputo dare a partire dagli anni Novanta (Francoforte: 1GSN.F - notizie) ai processi di privatizzazione e di integrazione europea. Insomma, andiamoci piano a considerare la crisi di queste banche che oggi valgono meno di un caffè come un episodio marginale e limitato della situazione di quello che era stato definito ufficialmente il sistema bancario più solido d’Europa. Come nella satira di Orazio, a molti grandi banchieri nazionali che contemplano le vicende delle banche in dissesto si potrebbe dire: de te fabula narratur (è di te che si parla in questa favola).

Di Marco Onado

Autore: La Voce Per ulteriori notizie, analisi, interviste, visita il sito di Trend Online