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Banda ultra larga, è giusto nazionalizzare tutto? Il caso dell'Australia

Giusto nazionalizzare la banda ultra larga? Il caso dell’Australia (foto: Getty Images)
Giusto nazionalizzare la banda ultra larga? Il caso dell’Australia (foto: Getty Images)

La banda ultra larga fa parte del piano strategico del governo per migliorare le telecomunicazioni nel nostro paese. Ci sono già state tre gare d’assegnazione, l’ultima delle quali a metà aprile è stata assegnata da Infratel, società in-house del Ministero dello Sviluppo Economico, alla Società Open Fiber: quest’ultima dovrà costruire e manutenere in concessione per 20 anni la rete pubblica realizzata nelle aree bianche (cioè a fallimento di mercato) in Puglia, Calabria e Sardegna, utilizzando un finanziamento pubblico di 103 milioni di euro.

La Strategia Italiana per la Banda Ultra larga risale al 2015 (dunque al governo Renzi) e ha l’obiettivo di contribuire a ridurre il gap infrastrutturale e di mercato esistente, attraverso la creazione di condizioni più favorevoli allo sviluppo integrato delle infrastrutture di telecomunicazione fisse e mobili. L’attuale governo gialloverde sta proseguendo nel solco di questa agenda.

Tuttavia molti si pongono il dubbio: sarebbe giusto nazionalizzare l’infrastruttura di rete a banda ultra larga, andando verso un monopolio di Stato della fibra unica per evitare investimenti privati? L’idea del governo sarebbe quella di replicare due modelli vincenti di monopolio pubblico, come Terna nel mercato dell’energia elettrica e Snam nel mercato gas.

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Secondo un articolo pubblicato dall’Istituto Bruno Leoni, c’è un solo paese che ha tentato la rete unica nazionale: l’Australia, con una società pubblica che doveva unificare le infrastrutture e separarle sotto il profilo della proprietà dall’erogazione dei servizi. A quanto pare non è andata così bene, laggiù.

Il piano National Broadband Network fu lanciato in Australia dal governo laburista nel 2009, con l’obiettivo dichiarato di cablare il 93% delle abitazioni con la tecnologia FTTH – la quale avrebbe garantito una velocità di connessione pari ad almeno 100 Mbps. In un Paese nel quale la concorrenza è tipica nella maggioranza dei settori di mercato, il governo ha deciso di tagliare fuori i concorrenti privati, dando loro solamente l’opportunità di investire nelle zone meno remunerative.

In questo modo il governo avrebbe potuto rivendere l’accesso agli operatori dei servizi su base non discriminatoria e a prezzi uniformi a livello nazionale. Ma non è andata come previsto: dopo otto anni e 51 miliardi di dollari spesi, ben più dei circa 40 messi in preventivo, l’80 per cento dei collegamenti ha raggiunto solamente velocità inferiori ai 25 Mbps. Un disastro, perché improvvisamente l’Australia si è ritrovata a rincorrere molti paesi con un’economia inferiore alla sua.

Il piano è stato rivisto nel 2013, dal governo liberale: 4 anni in più per completare i lavori, abbandono della tecnologia precedente in favore di un mix di altre soluzioni. A oggi solo il 54% delle utenze sono state cablate (7 milioni contro i 13 previsti dal progetto), e di queste 7 milioni di utenze solo 4 sono state attivate. A ulteriore beffa, i prezzi sono rimasti incredibilmente poco competitivi: per una connessione da 1 Gbps, offerta in tecnologia FTTP, si supera il prezzo all’ingrosso di 150 dollari australiani al mese. In Italia lo stesso servizio costerebbe 30 dollari australiani, per lo stesso periodo.

Il piano italiano è ancora, in realtà, poco oltre i nastri di partenza. Gli obiettivi del Ministero dello Sviluppo Economico e della società in house Infratel Italia S.p.A. sono: la copertura ad almeno 100 Mbps fino all’85% della popolazione; la copertura ad almeno 30 Mbps della restante quota di popolazione; la copertura ad almeno 100 Mbps di sedi ed edifici pubblici (scuole, ospedali etc.), delle aree di maggior interesse economico e concentrazione demografica, delle aree industriali, delle principali località turistiche e degli snodi logistici.

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