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"Bene la riforma della giustizia, ma serve procedere per tasselli"

(Photo: Riccardo De LucaRiccardo De Luca / AGF)
(Photo: Riccardo De LucaRiccardo De Luca / AGF)

Bene il governo sulla riforma della giustizia, “componente chiave dei diversi progetti del Pnrr”, anche se bisognerebbe “procedere per tasselli coerenti” e separare le problematiche della “giustizia civile da quella penale”. Ma per Marcello Messori “il meglio è nemico del bene” ed è un bene che si sia partiti. Anche perché, come il professore di Economia alla Luiss elenca nel suo libro ‘Recovery Pathways. The difficult Italian convergence in the Euro area’ (Bocconi University Press) - scritto in diversi capitoli a quattro mani con Marco Buti, capo di gabinetto del commissario all’Economia Paolo Gentiloni - con i fondi del Next Generation Eu l’Italia dovrà risolvere tutti “i problemi accumulati finora”, dovrà trasformarsi in una “negotiating democracy” per riuscire a trovare di volta in volta dei punti di “equilibrio” sulle cose da fare. Compiti che finora l’Ue non ha mai richiesto con forza al governo di Roma, per diverse ragioni dell’evoluzione della sua governance, che Messori spiega nel libro e in questa intervista. E poi perché si pensava che sarebbe stato il “mercato” a punire un paese che continuava a non crescere. Invece poi è arrivata la pandemia e tutto è cambiato. Ora l’Italia può farcela, “non ci è geneticamente impossibile”, ma, avverte Messori, “se pensiamo che il livello politico-istituzionale nazionale non riesca a sfuggire alla logica del breve termine siamo perduti”, bisogna abbandonare il “short-termismo”.

Il governo ha iniziato ad ‘aggredire’ la pratica Next Generation Eu con la riforma della Giustizia. Come valuta questi primi passi?

La riforma della giustizia è un passo non definitivo ma importante. Le riforme sono la componente chiave dei diversi progetti del Pnrr: senza riforme, non sarebbe possibile ottenere gli obiettivi che ci proponiamo con gli investimenti pubblici e privati. Ma bisogna fare in modo che ogni pezzo di riforma sia un passo intermedio rispetto a un progetto più generale e quindi valutare se tutti i pezzi siano coerenti con un progetto generale. Sotto questo profilo, anche se non sono un esperto dell’argomento, la riforma della giustizia che si sta avviando a realizzazione, si spera in un tempo ragionevolmente breve, solleva qualche elemento di riflessione pur essendo un passo importante.

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Quale?

Premetto che non è il mio campo, ma mi sembra evidente che non ci siano barriere tra riforma della giustizia civile e riforma della giustizia penale. Quindi se per esempio in un’area del paese c’è una forte pressione su questioni di tipo penale, questo si rifletterebbe anche sulle organizzazioni dei procedimenti di giustizia civile. Non si possono tagliare a fette i problemi della giustizia, ma nemmeno si può fare tutto insieme. Bisogna avere una visione generale di lungo periodo, ma essere così bravi a procedere per tasselli coerenti. Ad ogni modo il meglio è nemico del bene, quindi bisogna partire: se non effettuiamo riforme non potremo attuare i progetti.

Ecco ma, come lei sottolinea nel libro, il Next Generation Eu chiede all’Italia di compiere una vera e propria rivoluzione nel giro di poco tempo: rilanciare la crescita, convertire l’economia in senso ‘green’ e digitale, le riforme della giustizia, fiscale, della pubblica amministrazione, correggere radicalmente i metodi di spesa pubblica, tenere a bada il debito. Tanta roba. Ma come è potuto succedere che ci siamo ridotti così: perché Bruxelles ha lasciato correre finora?

La sfida che pone il Next Generation Eu è gigantesca, chiede la mobilitazione di tutte le componenti del paese: quelle produttive, quelle sociali. Non è un problema del governo, ma dell’Italia e di noi italiani nel nostro insieme. C’è la necessità di una cesura molto rilevante. Ma secondo me siamo arrivati a questo punto per l’evoluzione che c’è stata nella governance europea. Fino alla crisi finanziaria del 2007-2009, vigeva l’idea che ci fosse una politica monetaria comune con effetti importanti di breve periodo, una responsabilità nazionale sulle politiche fiscali e a livello centrale dei vincoli. Questi vincoli sono stati estremamente flessibili, nei fatti se non nei principi perché, fino alla crisi finanziaria, i paesi più fragili dell’area euro sono cresciuti più dei paesi forti. Spagna, Portogallo e la stessa Grecia avevano tassi di crescita maggiori della Germania e altri paesi forti. Unica eccezione tra i paesi fragili era l’Italia, che faticava a crescere ed ereditava un forte debito pubblico, che però cresceva poco e tutto sommato sembrava in grado di non fare aumentare la spesa e di rispettare questa convergenza. Poi arriva la crisi e si scopre che mancano meccanismi accentrati per poterla gestire. Non bastano i vincoli. Allora si organizzano programmi di aiuto europeo che sembrano andare verso la condivisione dei rischi, ma al contempo si impongono regole così severe ai paesi che vengono aiutati da comprometterne gli equilibri. Il caso più emblematico è la Grecia, cui sono stati chiesti aggiustamenti macroeconomici che vanificano gli effetti degli aiuti.

Il libro sottolinea la critica europea su quegli anni, critica che nei fatti ha dato vita al ‘recovery fund’, altra filosofia.

Sì ma allora non si ebbe la capacità di costruire una governance alternativa. Si oscillava tra condivisione del rischio e riduzione del rischio, il leitmotiv drammatico che in qualche modo compromette l’equilibrio degli anni successivi. Si determina una fase di stallo, attenuata nel 2017 quando l’area euro ricomincia a correre, ma con un fiato veramente corto perché già nella seconda metà del 2018 e prima del 2019, è di nuovo a rischio di recessione, in Italia come in Germania. Le istituzioni europee non ‘mordono’ l’Italia perché si entra in una fase di stallo, dopo i tentativi falliti di trovare un equilibrio tra riduzione del rischio e condivisione del rischio. Non si trova una soluzione e dunque si dice che a lungo termine l’Italia sarà punita dal mercato. E invece arriva lo shock pandemico che paradossalmente consente di superare questo problema. È così grave che colpisce tutti in maniera simmetrica ma anche asimmetrica, a seconda delle condizioni di partenza. E cambiano le regole del gioco: per la prima volta abbiamo una convergenza tra politica fiscale e politica monetaria, una politica fiscale accentrata e non più solo vincoli, ma condivisione del rischio e costruzione, seppure una tantum, di un primo presidio di bilancio centralizzato e quindi si riaprono davvero i giochi. Ed è qui che l’Italia è chiamata a risolvere tutti i problemi che ha accumulato. Non c’è mai un’ultima occasione ma certamente questa è una tappa fondamentale: non possiamo fallire questa sfida che è difficilissima. Non possiamo risolvere con la bacchetta magica in quattro anni i problemi accumulati dalla fine degli anni ’70-80, ma dobbiamo costruire dei tasselli, iniziare un percorso credibile ed efficace nel lungo termine ma anche nel breve.

Si pretende che l’Italia diventi una ‘negotiating democracy’, come lei scrive in ‘Recovery pathways’. Ma come è possibile?

Lei tocca un punto fondamentale. Nel libro questo è un auspicio che rientra nelle riforme da fare. Se noi pensiamo che il livello politico-istituzionale nazionale non riesca a sfuggire alla logica del breve termine siamo perduti. Se siamo d’accordo che i progetti possano essere realizzati solo se si fanno le riforme e se siamo d’accordo che le riforme non possono essere realizzate con la bacchetta magica nell’arco di un mese, ma richiedono una costruzione lunga fatta di tasselli coerenti tra loro, allora quello che si chiede è una visione di medio-lungo periodo, chi decide deve avere quest’ottica. Mi rendo conto che è difficile perché, per come funziona il nostro sistema politico istituzionale, chi ha un’ottica di medio-lungo periodo non è premiato in termini immediati e quindi in qualche modo c’è un circolo vizioso che condanna al ‘short-termismo’, ma questo circolo va rotto. L’unico modo per farlo è tornare a quella che chiamo democrazia contrattuale, che non significa abolire la contrapposizione di interessi e obiettivi, la società rimane per fortuna conflittuale ma ci devono essere meccanismi per raggiungere un punto di equilibrio comune di medio-lungo periodo che consenta riforme e crescita, in altre parole: sviluppo sostenibile.

I fondi del recovery dovranno essere allocati entro il 2023, le riforme e gli investimenti implementati entro il 2026. Ma, tutti si chiedono: che succede dopo le elezioni ed eventualmente quando Draghi non sarà più alla guida del governo?

Vanno ripristinati i meccanismi che pure in embrione ci sono stati in Italia nel ’62/63. Ci sono state forme di democrazia contrattuale in Italia. I tentativi che sono stati fatti con la programmazione economica andavano in questa direzione. Il tentativo iniziato dal governo Amato e proseguito da Ciampi e dal primo governo Prodi andava in questa direzione. Non è che siamo geneticamente impossibilitati a farlo.

Torniamo al livello europeo: è vero che ci si sta spostando dalla logica del ‘risk reduction’ a quella del ‘risk sharing’. Ma faccio fatica a vedere un vero sviluppo dell’elemento della fiducia tra gli Stati, essenziale per la riuscita del progetto.

Lei ha ragione. Uno degli effetti della pandemia sull’articolazione istituzionale europea è aver fatto emergere la contraddittorietà della contraddizione tra ‘riduzione del rischio’ e ‘condivisione del rischio’. Le teorie economiche ci dicono che devono interagire perché solo quando non sono elementi contrapposti ma complementari producono effetti positivi. Prima della pandemia, esprimere questo concetto in Europa era una bestemmia. Adesso sta cominciando a entrare nella consapevolezza dei policy maker. Cosa produca, su questo sono d’accordo con lei, non è ancora chiaro perché manca la fiducia reciproca tra gli Stati membri e molto dipende dalle aspettative sui comportamenti italiani. Ecco perché, senza retorica, nel libro si dice che l’evoluzione della governance europea sarà molto legata alla capacità dell’Italia di rendere operativo il piano nazionale. E’ una sfida che spaventa molto, abbiamo una storia alle spalle che dice che non realizziamo i progetti nel tempo richiesto, sforiamo i costi, ma il Next Generarion Eu ci impone delle scadenze: non possiamo fare progetti in 12 anni invece che 4 e farli costare 200 invece che 100. Tutto questo è difficile, fa paura ma non vedo alternative nel medio periodo.

Qualcosa si muove. Ieri il Parlamento Europeo ha approvato a larga maggioranza una relazione sulla riforma del Patto di Stabilità. Si chiede che i percorsi di riduzione del debito pubblico non siano più uguali per tutti, ma ritagliati su misura per ciascun Paese e non a spese della crescita economica e della coesione sociale.

Le regole fiscali accentrate devono rimanere, ma bisogna trovare quel mix tra regole e adattamento nazionale tagliato sulle specificità nazionali. Per esempio, secondo me l’Italia potrebbe chiedere di tornare ai ‘Contractual arrangements’, meteora abbattuta in un Consiglio europeo del 2013 da Italia e Germania insieme per ragioni opposte: la prima non voleva fossero limitati ai paesi più fragili, la seconda temeva annullassero ogni regola. È chiaro che l’Italia non può ridurre il proprio debito rispetto al pil in base all’attuale Patto di stabilità, ma un aggiustamento è necessario a patto che sia compatibile con la crescita. E serve una specificità nazionale: bene che il Parlamento si sia mosso in questa direzione.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.