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Bosnia, il passato che non passa

La fioraia al mercato di Markale. Sarajevo, marzo 1994 (Photo: Mario Boccia)
La fioraia al mercato di Markale. Sarajevo, marzo 1994 (Photo: Mario Boccia)

“Sei serba, croata o musulmana?” “Sono nata a Sarajevo” “Come ti chiami?” “cvjećara”, fioraia. Una delle prime lezioni che Mario Boccia ha imparato nei suoi anni da fotoreporter in Bosnia-Erzegovina è che anche la più ingenua e semplice delle domande, lì e a quell’epoca - era il febbraio 1992 - nasconde la più profonda e complessa delle risposte. Questa donna incontrata al mercato di Markale, nel centro di Sarajevo, non rivelerà mai a Boccia la sua etnia e il suo nome. Poco tempo dopo avrebbe pagato il prezzo del conflitto in Bosnia, colpita alla testa da un cecchino, chissà se fosse serbo, croato o musulmano. Quando racconta di quegli anni di guerra, Boccia ricorda l’aria di inaspettata fratellanza in tante storie di vita: “Sarajevo, la capitale, era un presidio di convivenza - dice il fotoreporter all’Huffpost - la prima volta che ho dormito in una casa al centro della città, sono stato ospitato da un serbo, Boban, che era sposato con la moglie montenegrina e combatteva contro gli assedianti”. Ha poi conosciuto un gruppo di donne - laiche, musulmane, cristiano-ortodosse - che nel 2003 hanno fondato una cooperativa chiamata “Insieme per la raccolta e produzione di lamponi”.

Sono le storie di chi ha convissuto da sempre con l’altra etnia, quella stessa che negli anni Novanta sarebbe diventata motivo e motore di guerra. Come allora, ancora oggi, l’equilibrio su cui poggia questo paese dalla fine della guerra e la pace di Dayton nel 1995 fa perno sull’etnia. Fragile e sottoposta a continue oscillazioni, la convivenza tra i gruppi etnici della Bosnia-Erzegovina nell’ultimo mese è stata di nuovo inserita in un’atmosfera di guerra. Milorad Dodik, membro serbo della presidenza tripartita, ha minacciato di ricostituire un esercito serbo bosniaco. Questa è solo una delle tante iniziative che da settimane porta avanti per aumentare i poteri della Repubblica Srpska (RS), una delle due entità - a maggioranza serba - che compongono il paese.

Quartiere di Ali pasino Polije. Sarajevo, gennaio 1993 (Photo: Mario Boccia)
Quartiere di Ali pasino Polije. Sarajevo, gennaio 1993 (Photo: Mario Boccia)

La suddivisione attuale della Bosnia-Erzegovina, infatti, è il prodotto degli accordi di pace di Dayton, firmati per mettere fine alla guerra iniziata nel 1992. Un conflitto che va inserito nel contesto più ampio delle guerre Jugoslave scoppiate dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991. Leit motiv: l’etno-nazionalismo come principio fondamentale nella ridefinizione politica dei popoli dell’ex Jugoslavia. I negoziati di Dayton riuscirono a porre fine ai conflitti in Bosnia ma non trovarono soluzione alla convivenza tra gruppi che si erano combattuti così ferocemente. In ogni caso, nel 1995 in Ohio, i presidenti della ‘terza Jugoslavia’ (Slobodan Milosevic), della Croazia (Franjo Tudjman) e della Bosnia- Erzegovina (Alija Izetbegovic), si accordarono per dividere il paese in due entità: la Federazione della Bosnia Erzegovina e la Repubblica Srpska, più il distretto di Brcko. Venne istituita la figura dell’Alto Rappresentante, con ampi poteri politici, ma - paradossalmente - vennero inclusi nella vita politica del paese i partiti che avevano condotto la guerra. A vigilare sugli accordi di Dayton, su mandato delle Nazioni Unite, il 2 dicembre 2004 è stata avviata l’operazione EUFOR “Althea”, un contingente di militari di stanza in Bosnia-Erzegovina. Nelle prime fasi l’operazione contava circa 6.000 militari, una consistenza che si è progressivamente ridotta: ad oggi i militari presenti sono 700. Lo scorso 3 novembre, il Consiglio di Sicurezza ha rinnovato la missione di peacekeeping anche se, secondo il giornalista Gigi Riva: “Non è sufficiente a scongiurare il pericolo di un nuovo conflitto”.

A Ramadan gunner fires a round from his firework cannon to signal the end of dawn-to-dusk fast from an old fortress overlooking the historic center of Sarajevo, Bosnia, Tuesday, May 11, 2021. Muslims throughout the world are marking the last days of Ramadan -- a month of fasting during which observants abstain from food, drink and other pleasures from sunrise to sunset. (AP Photo/Eldar Emric) (Photo: via Associated Press)

L’etnocrazia come principio cardine da cui tutto muove è ancora oggi presente in Bosnia Erzegovina. Lo sa bene Samir Beharic, attivista per i diritti umani bosniaco, che da anni combatte il segregazionismo scolastico: “Ci sono 66 scuole dove i bambini sono tenuti separati solo perché appartengono a diverse nazionalità e religioni” racconta Samir intervistato da Huffpost. Samir è nato nel 1991 a Jajce. Ha conosciuto sin da piccolo la guerra perché un anno dopo essere nato è dovuto scappare via insieme alla sua famiglia. ”È difficile portare la pace in un paese dove negli ultimi 25 anni i giovani hanno subìto un lavaggio del cervello, dove si insegna ad odiarsi gli uni con gli altri. Finora abbiamo ottenuto dei successi nel prevenire la segregazione nelle scuole ma ci sono ancora troppi nazionalisti”.

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La percentuale di giovani che lasciano la Bosnia in cerca di un futuro migliore è molto alta. L’indagine del Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione (UNFPA) ha intervistato 5.000 giovani all’inizio di quest’anno e ha scoperto che quasi la metà (47%) ha pensato di emigrare, un quarto (24%) sta pensando di partire definitivamente.

Aspirazione migratoria permanente o temporanea in relazione al livello di istruzione (Photo: United Nations Population Fund)
Aspirazione migratoria permanente o temporanea in relazione al livello di istruzione (Photo: United Nations Population Fund)

“Negli ultimi anni ho studiato in diversi paesi europei ma ho sempre deciso di tornare - afferma Samir - le persone vogliono costruirsi una vita qui, vivere e prosperare qui ma la politica nazionalista non glielo permette. Vivono nella paura costante dello scoppio di una guerra”. “We have been born and raised in a war environment”, siamo nati e cresciuti in un ambiente di guerra, racconta l’attivista.

La crisi dell’ultimo mese in Bosnia-Erzegovina non è inaspettata. Più volte, infatti, Dodik ha minacciato la secessione della Repubblica Srpska giocando sullo stallo politico del Paese. Secondo il giornalista Riva: “La situazione di oggi è figlia della pace di Dayton - dice all’Huffpost - non fu una vera pace ma al massimo una tregua. Non risolse i punti nodali: nel grande rimescolamento dei Balcani dopo la dissoluzione dell’ex Jugoslavia, la Bosnia, che aveva tre etnie distribuite sul territorio a macchia di leopardo (musulmani di Bosnia, serbi e croati) divenne il terreno ideale per la guerra. I serbi bosniaci volevano riunirsi alla madrepatria, la Serbia, così come i croati di Erzegovina alla madrepatria croata. Dayton aveva stabilito, con una costruzione architettonica farraginosa, che il Paese rimanesse unito senza sciogliere i nodi. I serbi di Bosnia accettarono quella pace sotto minaccia ma sono rimasti convinti che il loro obiettivo finale fosse quello di riunirsi alla Serbia”.

Milorad Dodik, the President of the Republic of Srpska, inspects an honour guard during a parade marking the 26th anniversary of the Republic of Srpska in the Bosnian town of Banja Luka, Tuesday, Jan. 9, 2018. The Jan. 9 holiday commemorates the date in 1992 when Bosnian Serbs declared the creation of their own state in Bosnia, igniting the country's devastating 4-year war. (AP Photo/Amel Emric) (Photo: via Associated Press)

Un ‘non-paper’ dello scorso marzo consegnato al Consiglio europeo, aveva fatto circolare di nuovo l’ipotesi di rivedere i confini della Bosnia. Il documento è stato attribuito al primo ministro della Slovenia, Janez Jansa, che però ha sempre smentito. L’idea di continuare laddove la pace di Dayton aveva messo un punto - seppur instabile e controverso - e creare stati mono etnici è quindi un sottofondo costante nella vita dei bosniaci. Con la sua ultima minaccia, Dodik sembra aver sfidato con forza il superamento della linea rossa: non solo con la ricostituzione di un esercito serbo, ma anche lo spostamento dell’agenzia del farmaco nella Rs e la rimodulazione a livello locale del sistema di tassazione e di giustizia.

“Quando Dodik paventa la creazione di un esercito serbo bosniaco va considerato anche cosa fare delle caserme bosniache nella Repubblica Srpska - racconta Boccia - mi torna in mente quando, all’inizio dell’assedio di Sarajevo, una colonna di soldati di leva uscì dalle caserme per andarsene dalla città. Furono attaccati e morirono moltissimi ragazzi giovani mentre il generale Jovan Divjak urlava ai suoi ‘non sparate, non sparate’. Divjak venne accusato di crimini di guerra anche se innocente. Questo per dire che, una volta fatto un errore, la spirale non si ferma”.

Postazione serbo-bosniaca sul monte Trebevic. Sarajevo, dicembre 1992 (Photo: Mario Boccia)
Postazione serbo-bosniaca sul monte Trebevic. Sarajevo, dicembre 1992 (Photo: Mario Boccia)

Più che prologo di secessione, secondo il ricercatore dell’Ispi Giorgio Fruscione, la situazione in Bosnia rischia di trasformarsi in un’eterna paralisi politica. “Escludo la possibilità di guerra perché le élite nazionaliste guadagnano molti più punti politici reiterando la minaccia di secessione. Il rischio, però, è che la Repubblica di Srpska diventi uno stato nello stato che agisce in modo indipendente” ha detto all’Huffpost. Un po’ come il destino riservato alla Cecenia, diventata stato-vassallo della Russia di Putin dopo la fine della seconda guerra nei primi anni Duemila. Proprio con Putin, Dodik si è incontrato nei giorni scorsi: “Quando vado da Putin, non ci sono richieste. Dice solo ‘in cosa posso aiutare’?” ha dichiarato il leader serbo in un’intervista al Guardian.

I rapporti tra Putin e Dodik, così come quelli con la Bielorussia di Lukashenko, non possono essere ricollegati al nostalgico pensiero di essere un tempo appartenuti allo spazio sovietico. Al centro dell’appoggio o meno a Dodik nella sua impresa di secessione c’è un’altra questione: “Se la Russia potrà fiutare un proprio interesse esclusivo lo farà coordinandosi con Belgrado ma non diamo questo supporto per scontato, se ne serve a proprio uso e consumo” ha continuato Fruscione. Secondo lui, invece, da tenere monitorata è la Turchia di Erdogan: “Tradizionalmente uno dei principali partner commerciali di Sarajevo. Desidera che la Bosnia rimanga stabile, è un politico molto pragmatico e lo fa per difendere il proprio coinvolgimento”.

Gli Stati Uniti, promotori della pace di Dayton, oggi sono il grande assente. La politica isolazionista di Biden dagli affari esteri, annunciata con il ritiro delle truppe dall’Afghanistan, si è riflessa anche in Bosnia. Dopo una visita nella regione del consigliere del Dipartimento di Stato, Derek Chollet, alla luce delle minacce di Dodik, i funzionari statunitensi hanno detto che stanno rivalutando la politica di Washington in Bosnia, che fino ad ora è stata di basso profilo e concentrata sulla riforma elettorale.

US and Bosnian flags are projected on the National Library building in Sarajevo, Bosnia, along with messages of support for US President-elect Joe Biden as Bosnians celebrate his election victory, Sunday, Nov. 8, 2020. Hundreds of Bosnians converged on the city center celebrating Joe Biden's victory in the US elections, remembering his role in ending Bosnia's war in the nineties when, as a US senator, he was instrumental in getting the US and NATO to intervene in the conflict by bombing the Bosnian Serb positions which eventually led to the 1995 Dayton peace agreement.(AP Photo/Kemal Softic) (Photo: via Associated Press)

E l’Unione Europea? Lo strumento che potrebbe mettere in campo è quello delle sanzioni, come è stato per il presidente bielorusso Alexander Lukashenko. ”È la via più pacifica e probabile per evitare la guerra”, ha detto Samir. Dall’altra parte, però, è quasi impossibile che l’Ue raggiunga l’unanimità per sanzionare la Bosnia: l’Ungheria di Orban, ad esempio, non accetterebbe. Il rischio di mettere in campo lo strumento punitivo dell’Unione Europea è quello di “rinfocolare un nazionalismo che pensa che l’Occidente sia contro di loro - dice Gigi Riva - bisogna agire su Zagabria e Belgrado”. Le due capitali, della Croazia e della Serbia rispettivamente, continuano sotterraneamente a soffiare sul fuoco di queste divisioni senza prendere posizione: “Ci vorrebbe un pronunciamento dei due per cui si impegnano a non toccare i confini della Bosnia e a non accettare nessuna annessione da parte dei loro fratelli separati”.

Che la crisi di Bosnia sia simile alle altre o il definitivo punto di non ritorno, ha mostrato ancora una volta la fallacia di Dayton. Scrive Bernard Guetta su Repubblica: “Rimane l’idea di una Conferenza di pace preventiva che cerchi di porre realmente fine alla guerra di spartizione della Jugoslavia che ha straziato i Balcani negli anni Novanta. Di fronte alla minaccia di una guerra civile, si dovrebbe prima di tutto chiedere ai popoli della Bosnia-Erzegovina se vogliono continuare a vivere insieme nello Stato comune che gli Stati Uniti e l’Europa avevano voluto far sopravvivere alla disgregazione della Jugoslavia con gli accordi di Dayton. Se la risposta fosse “sì”, si dovranno proporre nuove istituzioni, rispettando delle autonomie culturali indispensabili ma veramente inclusive. Se la risposta fosse “no”, sarà invece necessario negoziare una divisione territoriale e aprire la strada alla creazione di una Singapore musulmana e al ricongiungimento delle parti serbe e croate alla Serbia e alla Croazia”.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.