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Brexit, più una guerra che una trattativa

In principio c'erano solo i buoni propositi. Dopo il referendum dello scorso giugno, che sancì l'addio del Regno Unito dall'Unione Europea, il governo britannico e le istituzioni europee giurarono e spergiurarono che le trattative sulla Brexit sarebbero state condotte all'insegna degli interessi comuni, della lealtà e dello spirito costruttivo. Pochi mesi sono passati da allora e lo scenario è già completamente cambiato. A rendere il clima teso sin da subito contribuirono le dichiarazioni del primo ministro inglese Theresa May, la quale scelse l'opzione "hard Brexit", ovvero quella della linea dura su tutti i fronti. Altrettanto dura la replica di Bruxelles, che rispedì al mittente la proposta britannica di condurre delle trattative one-to-one con i singoli stati membri: "L'Unione Europea nelle trattative agirà come un soggetto unico", dichiarò il presidente dell'Eurogruppo Donald Tusk subito dopo l'avvio del processo di separazione voluto da Londra, aggiungendo una frase sibillina che fece capire come il clima delle trattative si era fatto subito duro: "Le trattative che sto per avviare saranno difficili e complesse, ma non c'è modo di evitarlo", dichiarò senza mezzi termini.

Sul tavolo delle trattative, il primo nodo da sciogliere è quello del pagamento dell'assegno di divorzio dall'Unione Europea, che per Londra ammonta a 60 miliardi di euro, dovuto alle obbligazioni finanziarie che il Regno Unito ha contratto in passato e ora deve liquidare a Bruxelles. Il governo britannico ha dichiarato di essere pronto a pagare il prezzo dell'uscita ma, secondo le sue stime, l'ammontare da versare sarebbe di gran lunga più ridotto. Per Iain Duncan Smith, ex segretario del lavoro e delle pensioni, nonché forte sostenitore del partito dei "leavers", alla fine quello che Londra dovrà versare a Bruxelles si risolverà in "pochi spiccioli". Per John Redwood, parlamentare dei Tory, la questione è ancora più chiara: "Non gli dobbiamo nulla. Non c'è nessuna obbligazione o base legale che imponga ai ministri britannici di dargli dei soldi", ha dichiarato. Parole che hanno subito fatto scattare l'allarme nei corridoi della Commissione Europea, soprattutto dopo che l'agenzia di rating Standard & Poor's ha messo per iscritto che, nel caso tale assegno non fosse pagato, il rating dell'Unione Europea, attualmente al livello AA (Francoforte: A116XA - notizie) , "potrebbe essere messo sotto pressione". Non si conosce cosa la stessa agenzia pensi di fare con il rating sovrano del Regno Unito nel caso contrario, quello in cui Londra paghi per intero i 60 miliardi pretesi da Bruxelles. In ogni caso, la battaglia del rating è un elemento che aggiunge ancora più tensione nelle trattative tra le due parti.

Seconda questione, quella del futuro delle società finanziarie con sede nella City di Londra che a seguito della Brexit potrebbero dover trovare una nuova sede in un altro stato membro per non perdere i "diritti di passaporto finanziario", che consentono loro di vendere i servizi all'interno del continente. Su questo tema molto si è scritto, anche a seguito degli annunci da parte dei CEO di molte banche d'investimento di voler ricollocare parte della loro forza lavoro in uffici europei. Tuttavia, quanto fatto da Llodys nei giorni scorsi potrebbe far comprendere molto bene come il temuto Brexodus di banche e società di assicurazioni da Londra potrebbe essere molto minore di quanto paventato. Il gigante assicurativo britannico ha infatti scelto Berlino come propria sede europea e, secondo il Telegraph, la società è pronta a richiedere la licenza bancaria al regolatore tedesco Bafin già nei prossimi mesi. Tuttavia, la stessa vorrebbe trasformare l'ufficio berlinese da semplice "branch" (filiale) a "subsidiary" (società sussidiaria), ovvero una entità legale separata. Questa nuova configurazione permetterebbe a Lloyds di commercializzare i propri servizi finanziari nel mercato europeo, senza dover spostare personale dal Regno Unito. Sempre secondo il Telegraph, infatti, lo staff della nuova entità ammonterebbe soltanto a un centinaio di unità, una piccola frazione della forza lavoro totale, che ammonta a 30mila. Anche su questo versante, quindi, l'Unione potrebbe essere costretta a ridimensionare di molto i suoi obiettivi di portare sul suo territorio le tanto ambite società finanziarie londinesi. A meno che, tramite una riforma della regolamentazione finanziaria, non si inventi qualcosa per rendere più stringenti i requisiti che permettono di identificare una "subsidiary" camuffata, come potrebbe essere fatta passare quella di Lloyds. Anche questo dovrà essere valutato nelle prossime trattative.

Il terzo smacco che Londra vuole fare a Bruxelles riguarda, infine, il futuro delle agenzie europee, attualmente localizzate a Londra, l'EMA e l'EBA. Se all'inizio sembrava automatico che le due realtà dovessero lasciare subito dopo l'inizio del processo di Brexit il suolo di Sua Maestà, attualmente il governo britannico ha dichiarato che tali spostamenti rientrano nel perimetro delle trattative e che pertanto è prematuro pensare alla futura collocazione di strutture e personale delle due agenzie. Una posizione che, certamente, suona quasi come una presa in giro per l'Europa e che Bruxelles non può accettare, anche per il semplice fatto che una tale decisione renderebbe difficile la gestione organizzativa delle due istituzioni.

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Se e quanto l'aumento di tensione tra le due fazioni genererà effetti negativi solo il tempo potrà dirlo. Nel (Londra: 0E4Q.L - notizie) frattempo, però, si è capito che la posta in palio è troppo alta per poter prevedere delle trattative amichevoli nei prossimi mesi. Più probabile, invece, che lo scontro aperto si allarghi anche ad altre questioni.

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