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Bruxelles va alla guerra dei chip ma l'ha già persa

Chip War (Photo: Getty/HP)
Chip War (Photo: Getty/HP)

Se l’obiettivo è raggiungere la “sovranità tecnologica”, la sfida è persa in partenza. Nel consueto discorso annuale sullo Stato dell’Unione, mercoledì Ursula von der Leyen ha annunciato all’Europarlamento una nuova legge per sviluppare la produzione di microchip sul suolo europeo. “I semiconduttori sono quei i piccoli chip che permettono a tutto di funzionare, dagli smartphone agli scooter elettrici, dai treni a interi stabilimenti smart”, ha spiegato la presidente della Commissione. “Non ci può essere digitale senza quei chip” ma “a causa della loro carenza la produzione sta rallentando nonostante l’aumento della domanda globale”. Amara scoperta: oggi, ha ammesso von der Leyen, “dipendiamo da microchip prodotti in Asia: non è solo una questione di competitività, ma anche di sovranità tecnologica”. La Commissione Europea è decisa perciò a scendere in campo nella “guerra fredda tecnologica” tra Cina e Stati Uniti dopo aver interpretato per anni il ruolo di spettatore neutrale.

Non è la prima volta che Bruxelles annuncia iniziative nel mercato dei semiconduttori, soprattutto di recente quando la delicatezza di alcune forniture si è resa evidente prima con la guerra commerciale scoppiata tra Stati Uniti e Cina a colpi di sanzioni e poi con il crescendo di tensioni militari nell’area intorno a Taiwan, primo produttore di chip in conto terzi. Ma è stata la lunga coda della pandemia che, mandando in tilt le catene di fornitura e innescando carenze e impennate dei prezzi, ha dato la sveglia a una Bruxelles dormiente. Oggi i chip, al pari delle materie prime, fanno registrare una grave penuria che sta praticamente affossando la ripresa dell’industria dell’automotive già duramente colpita dal blocco nel pieno della pandemia. L’elenco degli stop alla produzione è sterminato. Ford, Toyota, General Motor, VolksWagen, Renault: non c’è una sola casa automobilista che non abbia interrotto o rallentato, anche a più riprese, le attività nei suoi stabilimenti. Gli impianti italiani di Stellantis dalla fine delle ferie estive non hanno praticamente mai ripreso le attività. Secondo AlixPartners, le perdite inflitte al mondo dell’automotive dalla penuria di semiconduttori, sempre più indispensabili in un veicolo (tanto più se elettrico), nel 2021 supereranno i cento miliardi di dollari. Stima forse anche fin troppo rosea. Secondo IHS Markit, la produzione globale di veicoli leggeri calerà di cinque milioni quest’anno e anche di più il prossimo.

Colpita al cuore della sua industria automotive che impiega circa il 6% di tutta la sua forza lavoro e vale intorno al 7% del suo Pil, l’Europa ha quindi messo in campo una serie di interventi per cercare di recuperare la sua “sovranità tecnologica”. Già a marzo 2021, con un aggiornamento della sua strategia industriale e l’inaugurazione del “decennio per la trasformazione digitale”, Bruxelles aveva annunciato nuove misure per recuperare il gap con Usa e Asia. E ha luglio ha lanciato il progetto di una “Alleanza per i semiconduttori” per coordinare gli sforzi tra tutti i Paesi Ue, ridurre la dipendenza da Stati stranieri e portare il valore della sua produzione globale dal 10% al 20% entro il 2030. Obiettivo peraltro già fissato all’epoca dalla Commissione Barroso II: nel maggio 2013 l’allora commissaria olandese all’agenda digitale Neelie Kroes, presentando la sua Strategia industriale, promise che la produzione europea di chip sarebbe “raddoppiata fino a diventare il 20% della produzione globale” e che l’Europa “produrrà più degli Usa″. Otto anni dopo, come si vede, l’Ue invece di aver recuperato terreno, ne ha perso dell’altro. Ma i ritardi arrivano da lontano: a novembre del 2005, raccontano le cronache d’agenzia di allora, le società europee di semiconduttori si recarono a Bruxelles per chiedere aiuti perché incapaci di tener testa ai colossi asiatici. Un dirigente di un’azienda uscì dal colloquio con i tecnici comunitari affermando: “La Commissione Europea non ha preso alcun impegno”.

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Ora però l’Europa dice di voler fare sul serio. Von der Leyen non è entrata nel dettaglio della nuova legge in cantiere sui chip. Lo ha fatto invece il Commissario al mercato interno, il francese Thierry Breton: nel suo blog su Linkedin, Breton ha riconosciuto i guasti derivanti dalla carenza di semiconduttori, parlando di “conseguenze molto concrete per l’economia”, come gli stop produttivi nell’industria dell’auto, la mancanza di console per videogiochi e di router internet. “La situazione potrebbe durare per un po’”, ha scritto il Commissario Ue, “ma non si tratta solo di domanda e offerta: i semiconduttori sono al centro della corsa tecnologica globale e di forti interessi geostrategici”. In altre parole, quella dei chip non è altro che “la corsa alla leadership tecnologica e industriale”.

Il punto di forza della strategia europea sarà il miglioramento della capacità di ricerca. In secondo luogo, bisognerà aumentare la capacità produttiva europea, sviluppando centri di fabbricazione, o “mega-fab”, tra i più avanzati al mondo e in grado di produrre chip di due nanometri (un miliardesimo di metro) o inferiori. Inoltre andrà stilato un piano di cooperazione tra i Paesi membri per diversificare gli approvvigionamenti, in modo da non essere troppo dipendenti da un singolo Stato estero. Secondo Breton andrà poi “esplorata” la possibilità di creare un Fondo Europeo per i semiconduttori, che attinga da fondi comunitari, nazionali, e privati, anche attraverso progetti Ipcei, ovvero “Importanti Progetti di Comune Interesse Europeo”, uno strumento che consente in determinati ambiti e a determinate condizioni di derogare alle norme sugli aiuti di Stato. Bruxelles ne lanciò uno nel 2018 nel settore della microelettronica autorizzando aiuti statali alle imprese per sviluppare nuovi chip per internet e automobili. Come al solito, alle grandi ambizioni non sono seguite impegni altrettanto grandi di natura economica. La Commissione autorizzò sussidi e crediti per un totale di 1,7 miliardi, pari a poco più del 3% dei 50 miliardi gli aiuti di Stato concessi nel mondo alle industrie di semiconduttori tra il 2014 e il 2018, dati Ocse.

Ma il passato è passato: “Con l’annuncio dell’European Chips Act l’Europa si lancia nel ring. La nostra sovranità tecnologica è a portata di mano”, ha concluso Breton. Belle parole che tuttavia si scontrano con la dura realtà. Un recente paper del think-tank Bruegel fa un’analisi spietata dello stato dell’arte nell’industria europea dei chip, delineando un quadro così deprimente da chiudere la porta ad ogni sogno di gloria e di ritrovata sovranità tecnologica.

La produzione dei microchip è infatti un mercato fortemente consolidato, dominato da un ventaglio ristretto di aziende, che si riduce a duopolio (Samsung e Tsmc) nel campo dei chip di fascia alta, quelli inferiori ai 5 nanometri. La catena del valore è molto frammentata e concentrata, richiede un alto tasso di expertise, investimenti pesanti nella ricerca oltre che nell’infrastrutture produttive: “Le strategie proposte finora dall’Europa sono insufficienti per migliorare la sua competitività in questo settore estremamente capital intensive e dominato da player consolidati”, si legge nel documento di luglio del Bruegel.

I chip sono composti da semiconduttori, generalmente silicio, nei quali vengono poi innestati componenti elettroniche. Oggi ne vengono commercializzati di varie misure, ma lo sviluppo tecnologico sta andando verso una riduzione delle dimensioni e performance sempre più alte. Gli smartphone di ultima generazione fanno uso di microchip di 5 nanometri, ma in futuro nell’elettronica di consumo e in tutte le Ict (Information and Communication Technologies) verranno utilizzati componenti sempre più piccole: “La produzione di chip di così piccole dimensione è altamente complessa e richiede attrezzature di alta tecnologia e materiali. La complessità e la necessità di grandi capitali ha portato alla specializzazione e concentrazione della produzione. Oggi solo pochi Stati sono in grado di produrli”.

La produzione ruota intorno a tre macro-step: design, fabbricazione e assemblaggio. I modelli di business nel mondo dei chip sono sostanzialmente due. Uno è quello adottato dalla coreana Samsung e dall’americana Intel, capaci di provvedere a tutte le fasi della produzione, dalla progettazione (design) alla fabbricazione materiale del chip (Idm, Integrated design manufacturers). L’altro è quello adottato dalla taiwanese Tsmc, che si limita a fabbricare chip in conto terzi su commissione di altre aziende tecnologiche (dette fabless, senza fabbricazione) come Apple, Tesla, Alibaba, che li progettano secondo le loro esigenze. Queste prime distinzioni consentono di capire dove l’Europa si colloca all’interno della filiera produttiva dei semiconduttori. Nel design dominano le grandi aziende statunitensi come Qualcomm, Broadcomm, Nvidia e Amd che insieme raggiungono il 65% del mercato globale. Le aziende taiwanesi come MediaTek, Novatek e Realtek, si sono ritagliate un 17% del mercato, quelle cinesi il 15% ma sono in espansione, sotto il 10% quelle europee. Nell’ambito della fabbricazione attraverso le foundries, le fonderie, le società del Vecchio Continente fanno pure peggio: qui il 60% del mercato è dominato da Taiwan, grazie soprattutto a Tsmc, gli Usa detengono un 8%, la Corea del Sud circa il 20%, quelle cinesi il 6%. A Tapei fa capo inoltre la metà del mercato dell’assemblaggio.

Bruegel (Photo: Bruegel)
Bruegel (Photo: Bruegel)

Dove le aziende europee giocano un ruolo maggiore è nella fornitura di wafer di silicio e prodotti chimici, oltre alle attrezzature tecniche, grazie all’olandese Asml, la tedesca Aixtron, la francese Riber. Ad oggi solo due aziende al mondo sono in grado di produrre chip all’avanguardia da 5 nanometri o inferiori, Tsmc e Samsung, e solo tre producono chip inferiori ai 10 nanometri, Tsmc, Samsung e Intel. Tuttavia la società coreana e quella americana, ricorda il Bruegel, sviluppano chip integrati, motivo per cui gran parte della loro produzione viene ‘tagliata’ sulle esigenze dei loro prodotti di consumo. Per questo, negli ultimi mesi sono aumentate le pressioni commerciali soprattutto su Tsmc e le tensioni politiche su Taiwan.

Ma questo è anche il motivo per cui l’obiettivo dichiarato della Commissione Europea di raddoppiare la produzione di chip di fascia alta non sta né in cielo né in terra. Prima di tutto perché attualmente la sua quota di mercato nella fascia alta è pari a zero, piuttosto le sue aziende producono componenti impiegate nel loro assemblaggio. “L’Ue - scrivono i ricercatori del Bruegel - detiene una quota di mercato del 10% dell’intera capacità produttiva di semiconduttori, ma principalmente all’estremità inferiore della gamma tecnologica”.

Il Vecchio Continente poi non ha fonderie per chip di dimensioni minori. L’European Chips Act prevede la nascita di una “mega-fab” in grado di produrre chip da due nanometri ma la sfida non è di quelle semplici e forse nemmeno di quelle molto intelligenti. Le spese in conto capitale delle fonderie rappresentano circa il 36% dei 110 miliardi spesi a livello mondiale dal settore solo nel 2020. L’azienda leader, Tsmc, prevede di investire altri 100 miliardi nell’arco dei prossimi tre anni per ampliare la sua capacità produttiva. “Samsung ha speso oltre 93 miliardi tra il 2017 e il 2020 e prevede di spenderne altri cento nel prossimo decennio. I costi elevati, la necessità di attrarre i migliori talenti e quella di assicurarsi contratti di produzione con le aziende di progettazione prima di costruire le fonderie, rendono molto difficile la competizione per i nuovi attori sul mercato”, mettono in guardia i ricercatori del Bruegel. Ad oggi solo l’italo-francese StMicroeletronics e la filiale tedesca di Global Foundries sono in grado di produrre chip moderni, sebbene ben lontani da quelli di ultima generazione fabbricati in Usa e Asia.

Oggi gli impianti europei sono tagliati fuori dal mercato dei semiconduttori di ultima generazione che servono il settore più proficuo, quello degli smartphone e dei computer. Con l’avvento della pandemia, le case hanno tagliato le loro stime per la produzione di autoveicoli. Le società di chip hanno quindi dirottato i loro sforzi verso l’elettronica di consumo, di pari passo con l’incremento della domanda durante la fase dei lockdown. Le persone rinchiuse nelle loro abitazioni hanno infatti acquistato meno auto e più telefoni, apparecchi e pc per lo smart working o la didattica a distanza. Con la fine dei lockdown e la ripresa della domanda globale, auto incluse, i chip-maker non sono stati in grado di soddisfare il boom di richieste arrivate dalle aziende di automobili che speravano, una volta terminato il periodo delle chiusure, di recuperare rapidamente i loro ritmi produttivi. Ecco spiegato perché oggi le case automobilistiche (ma non solo) si ritrovano a corto di chip.

Nel 1998 l’Europa deteneva una quota di mercato del 22%, poi però “le fonderie europee non hanno investito abbastanza per stare al passo con il rapido ritmo di innovazione del settore: nel 2020, solo il 3% degli investimenti globali per attrezzare le fonderie è stato in Europa”, scrivono i ricercatori Bruegel. Un dato che rende molto evidente il ritardo accumulato negli ultimi vent’anni dall’Unione Europea nell’indirizzare e sviluppare la sua industria tecnologica.

Per capire quanto è complicato assumere una posizione di rilevanza nel mercato dei semiconduttori bisogna guardare alla Cina. Nel 2015 Pechino si è data come obiettivo il 2025 per raggiungere l’autosufficienza della sua filiera tecnologica. Nel 2020 sperava perciò di poter soddisfare il 40% della domanda interna di semiconduttori ma ha raggiunto solo 19%. Ed è noto quanto la Repubblica Popolare ci tenga ad avere il primato in un settore altamente strategico come quello high-tech. Negli ultimi anni ha comunque provato a recuperare il gap, affidando a una task force un budget da 170 miliardi di dollari per creare campioni nazionali dei semiconduttori. Ma lo sviluppo di una filiera domestica ha incontrato le frequenti e severe sanzioni degli Stati Uniti che hanno isolato le società di chip cinesi, privandole dell’accesso alle forniture di aziende americane, taiwanesi, europee e giapponesi alle quali era fatto divieto di vendere qualsiasi materiale o componente utile a Pechino per sviluppare la sua industria di semiconduttori. Oggi, grazie a Intel e ai suoi rapporti con Taiwan, gli Stati Uniti sono molto più avanti nel percorso che conduce all’autosufficienza tecnologica di quanto non lo sia la Cina e figurarsi l’Europa (con buona pace dell’ex commissaria olandese Kroes). E vogliono rimanerci: in un rapporto della Casa Bianca di marzo scorso veniva chiarito che gli Usa devono rimanere almeno due generazioni di chip avanti alla Cina e si invitavano perciò tutti i partner e alleati a non vendere all’ex impero Celeste nessuna strumentazione o materiale che potesse aiutarlo nella corsa ai chip. Oggi la più grande fonderia cinese, Smic, produce semiconduttori di 14 nanometri, non di meno.

L’Europa ha compreso troppo tardi qual era la posta in gioco nella corsa ai semiconduttori. Anche lasciando da parte ogni velleità di competere con Asia e Usa nell’elettronica di consumo, Bruxelles non ne ha intuito l’importanza che avrebbe avuto in futuro quantomeno per la sua industria manifatturiera ,in particolare quella dell’automotive. Né ha previsto le conseguenze di uno scontro geopolitico in atto da tempo nella corsa al primato tecnologico, motivo per cui le sue aziende Ue spesso si sono ritrovate senza un ombrello politico a fare buon viso al cattivo gioco statunitense, rinunciando a commesse e forniture verso la Cina nell’esclusivo interesse strategico degli americani. Il mercato dei semiconduttori, ricorda Bruegel, nel 1987 valeva nel complesso 33 miliardi di dollari, l’anno scorso ha toccato i 433 miliardi (+1200%).

Ora Bruxelles spera di recuperare l’abisso che si è creato con Asia e Usa grazie a un maggior coordinamento e all’obiettivo, al momento solo dichiarato, di racimolare massimo 30 miliardi tra finanziamenti statali e investimenti privati. Se si guarda agli aiuti statali messi in campo dalla Cina (170 miliardi) e Stati Uniti (54 miliardi oltre a mega-investimenti dei colossi privati a stelle e strisce) l’impressione è che Bruxelles stia andando alla guerra per la riconquista della sua “sovranità tecnologica” con armi spuntate e lo scolapasta in testa. Ammesso e non concesso che gli Stati membri siano capaci di trovare un’intesa tra gli interessi aziendali dei loro “campioncini” nazionali, restano da superare le stantìe regole di bilancio che ancora frenano la spesa pubblica e l’astruso quadro normativo che disciplina gli aiuti di Stato nel mercato interno.

Assodato che la sovranità tecnologica è un miraggio, più che concentrarsi sulle mega-fabbriche che richiedono anni di tempo sia per la costruzione che per pareggiare l’investimento, Bruegel suggerisce di concentrarsi sugli stadi più alti della catena del valore, cercando di acquisire un potere monopolistico in singoli ambiti comunque cruciali in una filiera altamente frammentata. In particolare andrebbero sviluppate maggiormente la ricerca, il design e i software, settori meno capital-intensive e più remunerativi. Ma senza fossilizzarsi eccessivamente sui chip per automobili, visto che nel 2019 hanno rappresentato solo l′8% della vendita globale di semiconduttori e i player europei già svolgono un ruolo di primo piano nel settore industriale. Serve insomma quella strategia seria di cui Bruxelles fa un gran parlare ma di cui al momento non si vede traccia. Il tempo è scaduto.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.