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Che fine ha fatto Termini Imerese?

Termini Imerese (Photo: Chiara Giarrusso ANSA)
Termini Imerese (Photo: Chiara Giarrusso ANSA)

Appena qualche mese fa, a marzo, la planimetria dello stabilimento di Termini Imerese è arrivata sulle scrivanie dei piani alti della divisione italiana di Amazon. Per chi in quello stabilimento è entrato nel 1988, più di trent’anni fa, solo il fatto che la multinazionale dell’e-commerce potesse prendere in considerazione l’idea di acquistarlo è stato un successo. Quando si è a casa da dieci anni, in cassa integrazione, e di anni se hanno 59, non ci sono altre alternative se non sperare in un cavaliere bianco, a meno che non si consideri un’alternativa aspettare ancora, fino a maturare i requisiti per andare in pensione. Non si è saputo più nulla del possibile interesse di Amazon. E se i 635 lavoratori del sito in provincia di Palermo alla fine non si sono fatti neppure grandi illusioni è perché dal 31 dicembre 2011, quando la Fiat ha dismesso l’ultima produzione, il processo di reindustrializzazione ha registrato solo intenzioni e fallimenti.

C’è chi a Termini Imerese ha promesso di portare piante e fiori, chi l’energia green, chi ancora le auto elettriche. Ma con l’eccezione di un intermezzo di tre anni, che ha coinvolto solo 130 dipendenti e che tra l’altro è finito nelle aule dei tribunali, gli ultimi dieci sono stati anni di cancelli chiusi e di ammortizzatori sociali. Una busta paga da 900 euro, senza tredicesima né quattordicesima, ma soprattutto senza la possibilità di varcare quei cancelli che ha contribuito a rendere importanti quando il lavoro era tanto. Nei 41 anni di gestione Fiat dietro ai quei cancelli sono state prodotte la vecchia 500, la 126, la Punto, la Lancia Y. Nel 1983 si lavorava su tre turni e da quei cancelli uscivano più di mille Panda al giorno. Erano altri tempi, un’altra industria, un’altra storia.

Quando quella storia finì allo stabilimento di Termini Imerese rimasero circa 1.450 lavoratori. Un accordo per i pre pensionamenti li portò a fine 2014 a circa 700, l’indotto scese da 500 a circa trecento. Il primo gennaio 2015 furono tutti trasferiti alla Blutec. L’accordo diceva che bisognava fare componentistica per la Fiat e produrre due macchine elettriche per conto della nuova azienda, ma quell’esperienza è stata relegata a tre anni (dal maggio del 2016 allo stesso mese del 2019) in cui l’elettrificazione del Doblò ha impiegato solo 130 dipendenti su circa 700 e senza grandi risultati. Poi arrivò l’inchiesta, con i manager da allora accusati di aver distratto fondi pubblici destinati al rilancio della zona industriale. Iniziò così la lunga stagione dell’amministrazione giudiziaria e dei tre commissari nominati dal Governo.

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Quella nuova, di storia, non è mai iniziata. Chi aveva iniziato a lavorare nel 1979 è arrivato a mettere da parte 42 anni di contributi. Sono tanti, andranno in pensione. Per loro il tunnel finisce qui. Ma per tutti gli altri continua. Questa non è solo una storia di una riconversione fallita, il che di per sé la rende degna di essere raccontata. È anche, se non soprattutto, la storia di un altro aspetto dell’incapacità della politica, e nello specifico dei vari governi che si sono susseguiti, di gestire, quantomeno di accompagnare, questo percorso. Sono stati bruciati 22 milioni di soldi pubblici, molti altri, fino a un totale di 240 milioni, sono stati promessi e però non erogati perché non si trova chi vuole impegnarsi seriamente a Termini Imerese.

La politica non può costringere un investitore a mettere i soldi sul piatto e a farsi carico di circa 900 lavoratori (ai 635 dello stabilimento si aggiungono circa 300 dell’indotto). Ma può creare le condizioni per agevolare questo investimento. Non tanto, meglio non solo, con incentivi e quindi con soldi, o con la proroga della cassa integrazione. Una riconversione implica investimenti pubblici e partnership con il privato capaci di ridisegnare il distretto, dotandolo innanzitutto di infrastrutture adeguate, ma anche di una capacità occupazionale in linea con quella dello stabilimento di riferimento. La lunga stagione della Fiat a Termini Imerese aveva fatto dell’indotto una parte integrante della produzione interna allo stabilimento.

Al ministero dello Sviluppo economico sono arrivate otto proposte. Ora che si intravede quantomeno la possibilità di individuare qualcuno che ci provi seriamente, lo scatto che fino ad ora è mancato è costituito dalla capacità del Governo di farsi accompagnatore di tutto quello che sta intorno all’ex stabilimento della Blutec, l’azienda che è subentrata alla Fiat e che però ha fallito nella sua missione. Le strade del distretto sono piene di buche, le piccole aziende che le circondano non arrivano ad occupare mille persone e si occupano di produzioni disparate, dalle uova ai mobili per i bar. La politica non è estranea alla logica del ripensamento di un’intera area industriale e non solo della casa madre. C’è stata l’esperienza delle bonifiche a Bagnoli, più recentemente quella per riqualificare tutto quello che insiste intorno all’ex Ilva di Taranto. Ma la prima ha collezionato decenni di ritardi, sprechi, inchieste, scontri politici. La seconda, invece, procede a un ritmo lento e tra l’altra con la questione principale - chi guida la fabbrica e cosa si produrrà - che si è riaperta. Insomma la logica dei grandi Poli, dei centri di ricerca o di qualsiasi altro progetto, è giusta sulla carta, ma l’applicazione è ancora farraginosa.

C’è un’altra cosa che manca in questa applicazione e che è mancata anche a Termini Imerese. In dieci anni di cassa integrazione non si è puntato sulla formazione, cioè sullo strumento che può riqualificare un operaio che per anni ha fatto macchine e che, vista l’evoluzione della crisi, dovrà fare altro. I circa 130 operai che dal 2016 al 2019 sono tornati in fabbrica hanno ricevuto mesi e mesi di formazione da parte di Blutec, ma è stata una formazione generica, sulla sicurezza. Si potrà obiettare che la conoscenza di quello che ci apprestava a fare, l’elettrificazione del Doblò, non implicava una formazione specifica. Ma a tutti gli altri lavoratori tenuti a casa e in cassa integrazione sono state erogate appena 2-3 settimane di formazione. Termini Imerese è una crisi più che attuale, nonostante sia datata, per questo motivo. Siamo il Paese che ha 1,5 milioni di cassintegrati e però una formazione per ricollocarli di fatto inesistente.

Il Recovery darà una spinta, la riforma degli ammortizzatori che entrerà in vigore il prossimo anno dovrebbe prevedere un obbligo di formazione per i cassintegrati calibrata sulla transizione ecologica e digitale. Questi impegni andranno articolati, bisognerà mettere a terra le modalità, capire chi formerà i lavoratori. Più in generale sarà necessario governare la riconversione. Oggi allo stabilimento di Termini Imerese sono rimasti in quindici: i manutentori, gli impiegati nell’amministrazione, gli addetti alla sicurezza industriale. Tutti gli altri a casa. Hanno un posto di lavoro, ma non il lavoro. Iniziare da qui per non continuare a chiedersi ancora che fine ha fatto Termini Imerese.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.