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Chiaromonte e Camus, anime gemelle che contestavano le ideologie con la verità

Albert Camus e Nicola Chiaromonte (Photo: Neri Pozza)
Albert Camus e Nicola Chiaromonte (Photo: Neri Pozza)

In una lettera ad Albert Camus, Nicola Chiaromonte scrive che “agli italiani non piace l’intimità”, perché, dice, “diffidano del fondo delle cose”. Chissà se è per la stessa ragione che, in Italia, Nicola Chiaromonte non è mai troppo piaciuto fuori da una piccola cerchia di lettori. Qualche anno fa, Filippo La Porta gli ha dedicato un saggio, Eretico controvoglia, eleggendolo a proprio eroe intellettuale. Cesare Panizza una ricca biografia (Donzelli). Lo citano con ammirazione i critici Alfonso Berardinelli e Matteo Marchesini e Mondadori sta raccogliendo tutti i suoi scritti in un Meridiano. Ma, all’inizio degli anni Novanta, quando il Mulino pubblicò tre dei suoi saggi, i libri rimasero in gran parte invenduti.

Camus, invece, avrebbe desiderato leggerli e pubblicarli già prima che fossero scritti. Lo si scopre leggendo il carteggio tra i due scrittori, pubblicato per la prima volta in Italia, nel volume In lotta contro il destino (Neri Pozza). Nella prima lettera che Camus invia a Chiaromonte (siamo nel 1945 e da qualche anno i due non si vedono) subito gli domanda: “Ha scritto i libri di cui mi ha parlato?”. Gli racconta che ha fondato e dirige una collana per la casa editrice NFR e che vorrebbe averlo nel proprio catalogo. “Non avrebbe per caso qualcosa di suo da darmi?”. Sono lettere che i due si scambiarono tra il 1945 e la fine del 1959, poco prima che Camus morisse in un incidente stradale.

Si erano conosciuti nel 1941 ad Algeri, quando Parigi era occupata dai nazisti e Chiaromonte scappava dalla città traumatizzata. Camus lo ospitò nella banda di giovani giornalisti, aspiranti scrittori e studenti che guidava. E l’affinità fu immediata. “Io l’ho riconosciuta”, scrive Camus a Chiaromonte: “Lei era nella decina di esseri con i quali sono sempre vissuto, anche in loro assenza”.

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Entrambi confidavano nel piccolo numero di persone, nell’ostinata singolarità dell’individuo. Sospettavano, invece, delle folle e delle masse. Erano già inattuali all’epoca che vivevano. Figurarsi alla nostra. Ma in questa incongruenza è la loro modernità. Pronunciavano senza pudore una parola che oggi appare ingenua, da cui facevano discendere molto di quel che ritenevano giusto, una parola che abbiamo imparato a guardare dall’alto in basso, noi così abituati a destrutturare qualsiasi cosa, dal fondamento mistico dell’autorità, al tiramisù: la parola verità. Non avevano dubbi che esistesse la verità e che esistesse la menzogna. La loro contestazione delle ideologie non si basava su null’altro che questo: le bugie che raccontano.

Si sentivano accerchiati: “Siamo così poco numerosi”, scrive Camus. E Chiaromonte condivide: c’è solo un numero “esiguo di persone disposte a vivere questa passione fino in fondo e senza compromessi”. Come i primi cristiani, si percepivano come dei testimoni. Di cosa? “Oggi – scrive Camus – quando le passioni collettive hanno sostituito le passioni individuali, la libertà è l’ultima passione individuale. Nella tradizione classica, era l’amore a essere minacciato dalla società. Oggi, è la libertà in ogni sua forma”.

Scriveva Chiaromonte che “il conformismo oggi è a sinistra”, qualche decennio prima della copertina dell’Economist sull’“illiberal left”. Quando in Francia venne rifiutata la traduzione di A world apart di Gustav Herling, il libro che svelava l’esistenza dei lager sovietici, Camus e Chiaromonte si diedero da fare per farlo pubblicare, contro le prudenze degli intellettuali della sinistra, sempre molto attenti a non imbarazzare i comunisti. Erano in gioco sia la libertà sia la verità, inconcepibili l’una senza l’altra.

Confessano di mentire solo una volta, in queste lettere: alle proprie mogli. Si raccontano i reciproci adulteri e si macerano nella sofferenza. “Dentro di sé, si sente una voce dire che non va bene” scrive Camus. E Chiaromonte: “Non ho mai creduto alla morale, ma non ho mai potuto credere neppure all’irresponsabilità”. Temono la vita pubblica, il gioco del dire sempre la propria nello schieramento delle idee, il rischio del mettersi in posa, l’impostura. Anche quando Camus vince il premio Nobel per la letteratura si sente in pericolo: “Questo evento raddoppia la mia paura della vita pubblica e mi ha soltanto avvicinato al piccolo numero di persone con le quali condivido il cuore e la mente”.

Entrambi avvertono una separazione del mondo. “Conosco bene questo stato d’animo” scrive Chiaromonte a Camus, che gli aveva confessato di provarlo. “Penso perfino che sia necessario, se si vuole mantenere netto lo spazio della coscienza (non dico: dell’io, che è personaggio assai equivoco)”. E riecco l’intimità – di cui queste lettere sono un documento toccante –, come luogo da custodire gelosamente, per proteggersi dalla tirannia del mondo. Perfetto controcanto al nostro tempo, che l’intimità, invece, invita a esporla senza sosta, come tutto il resto. Un bell’affare.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.