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Come tassare le pensioni d’oro

I tentativi di ridurre le pensioni troppo sperequate rispetto ai contributi versati sono falliti, infrangendosi contro i diritti acquisiti. La soluzione potrebbe essere la doppia tassazione dell’assegno pensionistico. Avrebbe dei vantaggi e potrebbe passare il vaglio della Consulta.

L’iceberg dei privilegi

Nel (Londra: 0E4Q.L - notizie) suo libro Vampiri (Mondadori), Mario Giordano stima che le circa 850mila “pensioni d’oro” valgano qualcosa come 45 miliardi di euro all’anno. Sono solo la punta dell’iceberg di un mondo di privilegi che la Prima Repubblica ha lasciato in eredità, mance elargite per comprare il consenso a una traballante democrazia. La parte nascosta dell’iceberg andrebbe pure quantificata: “pensioni-baby” concesse a dipendenti statali, pensioni di anzianità ottenute riscattando generosamente i periodi non lavorativi, retribuzioni-base elevate in virtù di promozioni dell’ultimo minuto, pensioni di reversibilità regalate alla badante sposandola in punto di morte e mille altre: prese singolarmente meno eclatanti di quelle “d’oro”, ma certo anch’esse fatte di un qualche altro metallo prezioso.

Scalfire l’iceberg si è rivelato finora impossibile, sia politicamente che giuridicamente. A mettere una pietra tombale è stata la Corte costituzionale, in nome del sacro totem dei “diritti acquisiti”: con buona pace di quanti invece, con le nuove regole, faranno un’immensa fatica a raggiungere un “tasso di sostituzione” decente.

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E se in un caso la Corte ha cambiato idea (la sentenza 173/2016 ha riconosciuto la legittimità del “contributo di solidarietà” previsto dalla legge di stabilità 2014), ciò è dovuto solo all’escamotage tecnico-lessicale di farlo apparire non già come un prelievo fiscale, ma come una misura una-tantum, interna al sistema pensionistico.

Su lavoce.info è già apparsa un’articolata proposta, che mira a introdurre un prelievo aggiuntivo sulle pensioni troppo sperequate rispetto ai contributi: è stata criticata perché violerebbe il principio dell’universalità e introdurrebbe una doppia tassazione.

Come funziona la “pension tax”

Per superare le critiche, una soluzione potrebbe essere quella di istituire un’imposta specifica, destinata espressamente ai redditi pensionistici (che verrebbero contestualmente sottratti dal cumulo dei redditi tassati dall’imposta personale Ire) e disegnata con il fine di incidere di più sulle pensioni caratterizzate da una maggiore quota di privilegio. Nessuna Costituzione ci obbliga infatti a tassare tutti i redditi con il medesimo strumento; già oggi i redditi da capitale sono gravati da un’aliquota sostitutiva e fissa.

La “pension tax” avrebbe come base imponibile il reddito lordo da pensione e si calcolerebbe dividendolo in due parti.

La prima parte sarebbe costituita dalla pensione ottenuta capitalizzando i contributi versati a un certo tasso convenzionale, che potrebbe essere lo stesso utilizzato nell’attuale regime istituito dalla riforma Dini o uno diverso e più favorevole al pensionato. A questa prima componente si applicherebbe la medesima struttura dell’Ire.

Alla parte eccedente, che grosso modo equivale alle dimensioni del “regalo” di cui i super-pensionati godono, si applicherebbe invece una struttura di aliquota più elevata e più marcatamente progressiva. Si potrebbero ad esempio applicare aliquote addizionali calcolate come funzione crescente del rapporto tra valore attuale delle prestazioni previdenziali lungo la durata attesa della “vita da pensionato” e valore capitalizzato dei contributi versati.

Questo schema comporterebbe molti vantaggi. Primo, si andrebbe a incidere su una componente di reddito costituita da pura rendita: la tassa ideale per ogni economista, dal momento che non comporterebbe alcun effetto distorsivo, permettendo (a gettito totale invariato) la riduzione di qualche altra imposta (per esempio sul reddito da lavoro).

Dal punto di vista dell’equità, l’imposta colpirebbe maggiormente coloro che godono di trattamenti previdenziali più sproporzionati rispetto ai contributi versati. Chi invece gode di una pensione elevata perché ha regolarmente versato contributi proporzionali a un altrettanto lauto stipendio, sarebbe assai meno penalizzato rispetto al regime attuale.

L’imposta potrebbe basarsi su informazioni già in possesso dell’Inps, ricorrendo anche al meccanismo forfetario già previsto dal Dlgs 180/97. Gli enti previdenziali agirebbero da sostituti di imposta, versando direttamente allo Stato gli importi prelevati. Il rischio di evasione sarebbe quindi nullo.

Occorrerà prevedere franchigie a tutela dei pensionati più deboli: per esempio una “no tax area” per le pensioni al di sotto di un certo multiplo dell’assegno minimo o forme di deduzione dall’imponibile.

Da un punto di vista della legittimità costituzionale si tratterebbe di un’imposta universale che colpisce con lo stesso criterio tutti i redditi della stessa natura. Quindi, almeno a parere di un non-giurista come il sottoscritto, meno attaccabile dalla Corte – peraltro presieduta da un “pensionato d’oro” a cinquanta carati.

Insomma, volendo si può. Ma lo vogliamo davvero?

Di Antonio Massarutto

Autore: La Voce Per ulteriori notizie, analisi, interviste, visita il sito di Trend Online