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Consumatori e produttori, chi vince la guerra del mercato

Un sistema che favorisce chi consuma rischia di rendere meno competitiva l'economia

Consumatori (Fotolia)

Il mercato ha le sue leggi e anche due poli contrapposti abbastanza facili da individuare: chi consuma e chi produce. E, data anche la subalternità dei ruoli, da sempre chi consuma cerca di ottimizzare i vantaggi, confidando anche nelle politiche a suo favore, decise da chi governa: dalle basse imposte alle agevolazioni normative, al facile accesso al credito.

Tutte prassi che, per il singolo o per i gruppi, tendono a favorire chi spende. Ma come riflette in un corsivo sull’Harvard Business Review l’accademico Richard A. D’Aveni, docente di strategic management presso la Tuck School of Business al Dartmouth College, chi ci perde quando il consumatore vince? Alla lunga, ci perde sempre lui e non è difficile capire perché.

Basti pensare più in generale a come funziona l’economia, dove a volte le politiche di governo favoriscono i produttori, altre volte i consumatori, e in alcuni casi entrambi, ma “c’è sempre un gruppo che riesce a ottenere più vantaggi rispetto all’altro”.

E’ facile dire che laddove, come in Cina, il supporto governativo o bancario va tutto all’impresa a essere sfavoriti saranno i consumatori, e i lavoratori, che hanno un accesso al credito scarso. Negli Stati Uniti, invece, scrive D’Aveni, si passa “all’estremo opposto”, e alla lunga si creano danni a quegli stessi consumatori che pur si vorrebbe favorire.

Infatti, i consumatori americani possono ormai accedere a beni di medio lusso, l’esempio è quello dei televisori a schermo piatto, a prezzi “incredibilmente bassi” ma alla lunga il risultato di questo atteggiamento si traduce in un’economia nazionale poco competitiva, fatta di aziende che vanno a produrre dove il costo del lavoro è più basso ma anche dove le politiche nazionali favoriscono il produttore, anche a danno dell’altra componente del sistema. In un’economia senza equilibrio, alla lunga il consumatore ci perde.

Lo dimostra, per contrasto, il caso della Germania, paese in cui il welfare state “si è allontanato dai consumatori”. Con una serie di scelte ad hoc (fra cui l’imposizione di tariffe alte sull’import di beni industriali proveniente da aree esterne all’Ue) la Germania ha tutelato la sua competitività, costringendo le aziende a investire e mantenere la forza lavoro, pur senza creare però degli oligopoli di comodo, in quanto le tariffe erano comunque non eccessivamente alte.

Inoltre, i ricavi delle tasse sui combustibili fossili e le più basse imposte a valore aggiunto sulla produzione hanno rilanciato i settori delle rinnovabili e la produzione di beni ad alto valore aggiunto, asset strategici.

Nei Paesi dove il tema del riequilibro degli interessi tra produttori e consumatori non è centrale all’interno del dibattito politico, si rischia di fare scelte sbilanciate, seguendo l’utopia di un mercato che si autoregolamenta, specialmente laddove prevalgono le teorie di stampo neoclassico: un sistema, insomma, dove non si deve scegliere tra l’uno o l’altro perché le imprese competono al meglio, e il valore che creano va in larga parte ai consumatori, se si esclude la quota per pagare il capitale e il lavoro.

Questo in teoria, ma nella pratica non succede. Alla lunga però il sillogismo dovrebbe essere chiaro, per i decisori: i consumatori di fatto sono anche elettori, quindi, sulla lunga distanza, avranno più a cuore il lavoro che i consumi.

Quindi, ne segue che, anziché essere favoriti sul piano dei consumi con prezzi convenienti, avranno più interesse ad avere un sistema economico solido, in cui, favorendo in maniera intelligente il produttore, alla lunga il consumatore-elettore ne gode in termini di crescita occupazionale e di competitività del sistema economico.