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Conte più Landini, a Letta si è ristretto il campo largo

Conte/Letta/Landini (Photo: ANSA)
Conte/Letta/Landini (Photo: ANSA)
Enrico Letta during the News The 2021 assembly of Confesercenti, on the occasion of the 50th anniversary of its birth on November 16, 2021 at the Salone delle Fontane, EUR in Rome, Italy (Photo by Gloria Imbrogno/LiveMedia/NurPhoto via Getty Images) (Photo: NurPhoto via Getty Images)
Enrico Letta during the News The 2021 assembly of Confesercenti, on the occasion of the 50th anniversary of its birth on November 16, 2021 at the Salone delle Fontane, EUR in Rome, Italy (Photo by Gloria Imbrogno/LiveMedia/NurPhoto via Getty Images) (Photo: NurPhoto via Getty Images)

Aiuto mi si è ristretto il campo largo. In 48 ore il centrosinistra si scopre più fragile, diviso, preoccupato. A meno di due mesi dal voto sul Quirinale, con il centrodestra che per quanto litighi ha almeno un candidato di bandiera, per il Pd arrivano due brutte notizie. E stavolta non dal fronte centrista (Matteo Renzi, Carlo Calenda) bensì dal lato “progressista” e dalla tela tessuta a sinistra. Fatto sta che i dem incassano una doppia delusione quasi simultanea. Dai grillini, gli alleati strategici della campagna elettorale che (a un certo punto) verrà, e dalla Cgil, il sindacato storicamente più vicino. Sebbene il ministro Andrea Orlando, il responsabile Economia del Nazareno Antonio Misiani e l’intero partito siano in trincea per riannodare il “dialogo” con Palazzo Chigi sperando di far rientrare lo sciopero di Maurizio Landini insieme alla Uil e senza la Cisl: “Mantenere l’unità sindacale nelle trattative è un valore per tutti, per il Governo e per il Paese”.

Sono ore concitate. Da un lato c’è il “no grazie” di Giuseppe Conte al collegio blindato di Roma 1 alle suppletive di gennaio, arrivato dopo un sì a mezza bocca sussurrato la sera prima: uno stop inatteso al percorso di campo largo da Conte a Calenda (che ha proclamato l’incompatibilità minacciando di scendere in campo “contro”). Dall’altro lato c’è la ben più fragorosa lettera con cui Landini e Bombardieri proclamano lo sciopero contro la manovra. È ovvio che la protesta punta a Mario Draghi, laddove il Pd è stata l’unica forza a schierarsi per il contributo di solidarietà contro il caro bollette in Consiglio dei ministri. Ma la decisione non fa fare i salti di gioia al ministro del Lavoro Orlando, che nei mesi scorsi si è esposto spesso per “rappresentare” le ragioni di sindacati e lavoratori in seno al Governo, scontrandosi anche con la Confindustria di Carlo Bonomi e la Lega di Giancarlo Giorgetti. È uno strappo alla tela “di sinistra” che Orlando, in sinergia con Letta, porta avanti.

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Ecco perché, dopo lo “sbigottimento” di Palazzo Chigi per lo sciopero arriva il gelo del ministro: “Francamente non posso nascondere una certa sorpresa, scelta legittima, ma non scontata, né dovuta”. Anche se al Pd non hanno perso le speranze di un “rewind”, con il Ministero del Lavoro e il partito a tutti i livelli impegnati a ricucire. In silenzio. Pochi i commenti: “Nella manovra ci sono interventi importanti per lavoratori, pensionati, sociale. Lo sciopero mi ha sorpreso negativamente” dice il senatore Dario Parrini. “Ci ripensino” incalza il suo collega Andrea Marcucci. Lo sconcerto è per quello che viene considerato, in parte, “fuoco amico”. Quando Landini aveva “evocato” l’arma dello sciopero, c’era stata comprensione: è un segnale affinché Draghi li convochi e presti attenzione su lavoro e pensioni – era filtrato dal Nazareno – Un invito alla rimodulazione del “metodo” del premier. Ma non è bastato.

E poi c’è la battuta d’arresto nel campo largo dell’alleanza progressista. Il diniego di Conte è di portata limitata ma dal significato pesante, anche per la scia di sospetti che trasporta: iniziativa del Pd romano, non accelerazione del Nazareno perché i romani avevano chiuso su Gasbarra, colpa di Calenda, no Calenda non conta abbastanza, Conte è un fifone, no i suoi non accettavano una candidatura “concessa per subalternità”. Riserve tra i Giovani Turchi di Matteo Orfini che ne fanno un tema di metodo e di linea: prima il Pd, poi il centrosinistra nello schema classico (con dentro Calenda), infine l’alleanza con M5S. Ovvero: discutiamone prima. Nessuno si nasconde i rischi di uno sfilacciamento. Luigi Di Maio, sulla vicenda Quirinale, si diceva preoccupato per “la spaccatura del centrodestra”, e invece guarda un po’. Si torna a fibrillare: sul trasloco di Draghi, su Mattarella che “però alla fine, non si può mai dire”. Il vero tema, sottotraccia, è la legge elettorale: tra l’aritmetica che oggi favorisce la destra e i mugugni per le “alleanze meccaniche”. Sarà questa la partita dopo l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Se ce ne sarà il tempo, ovviamente.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.