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Correlazioni....

Nulla che non si conosca già, ma vederlo espresso in un grafico stimola qualche riflessione.

Il grafico rappresenta la performance dell'indice S&P 500 (linea blu, scala sinistra) confrontato con l'espansione della base monetaria da parte della Federal Reserve, dal 2009 in poi.

Come sapete l'economi Usa non gode di ottima salute. Dopo il rialzo di tassi dello scorso dicembre (il primo da circa dieci anni) la Federal Reserve sembra orientata verso un sentiero più accomodante nel processo di normalizzazione dei tassi di interesse. Qualche giorno fa la Yellen ha messo in luce i rischi che l'economia Usa è costretta ad affrontare e che costringono il Fomc a rallentare nel percorso di rialzo dei tassi di interesse.

L'incertezza economica e finanziaria globale, guidata principalmente dal rallentamento cinese e dal collasso dei prezzi del greggio -dice la Yellen- ha incrementato i rischi per l'economia Usa, giustificando un cammino più lento per il rialzo dei tassi d'interesse della Fed. Quindi, nonostante i primi segnali di risveglio di inflazione negli Usa (leggi: Il ritorno dell'inflazione negli Usa , la Fed sarà più accomodante nel processo di rialzo dei tassi.

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A dire il vero, la cosa non sorprende affatto in quanto, più di un anno fa, su questi pixel scrivevo:

Poiché i livelli di debito (sia pubblico che privato) resteranno elevati ancora per molto tempo, verosimilmente, i governi avranno bisogno di inflazione per rendere più sostenibili i rispettivi debiti, in modo che il Pil nominale possa avere una maggiore incidenza sul debito, che dovrà essere smaltito (anche) per via inflattiva (salvo ristrutturazioni, nei casi più estremi). In uno scenario del genere, quando l'inflazione tornerà ad aumentare, è probabile che le banche centrali saranno molto più tolleranti rispetto a quanto lo siano state nel passato. Pertanto, salvo evidenti spinte inflazionistiche (che non appaiono all'orizzonte), l'eventuale aumento di tassi avverrà in maniera molto moderata e dilatata nel tempo, proprio per evitare di soffocare l'eventuale crescita e lasciare lavorare l'inflazione che dovrà diluire l'indebitamento. Se le banche centrali non saranno in grado di sostenere i livelli delle quotazioni di molte attività, verosimilmente, si assisterà ad un aumento della volatilità con riduzioni (anche significative) delle quotazioni, in modo da ristabilire la profittabilità di alcuni segmenti di mercato, che verranno così ricomprati a prezzi più bassi rispetto ai valori attuali o futuri.

Quindi l'atteggiamento più moderato da parte della Federal Reserve e le parole della Yellen hanno indebolito il dollaro fino a 1.14, contro euro.

E' pur vero che in questa fase il dollaro debole fa comodo a tutti.

Fa comodo ai paesi emergenti, che possono tirare un sospiro di sollievo, in quanto il carico del debito espresso in dollari è meno oneroso.

Fa comodo alla Cina, che è come se avesse fatto una svalutazione.

Fa comodo agli Usa, le cui aziende possono esportare con più facilità, recuperando redditività.

E se si pensa che negli ultimi due anni il dollaro si è rafforzato di oltre il 20% sull'euro, l'attuale livello del cambio non fa così paura nemmeno all'Europa. Certo, se l'euro dovesse ulteriormente rafforzarsi, magari verso 1.18 o 1.20, allora qualche problema ci sarebbe.

Nel frattempo i mercati sono saliti, proprio perché hanno interpretato favorevolmente le dinamiche appena accennate, anche se va detto che il quadro di fondo, in buona sostanza, è lo stesso di qualche settimana fa, con una crescita economica che non è poi così solida e uno shock o un inversione del sentiment potrebbe farla deragliare.

Autore: Paolo Cardenà Per ulteriori notizie, analisi, interviste, visita il sito di Trend Online