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Debito, inflazione, Pil. Cosa ci attende

Il presidente del Consiglio, Mario Draghi e il ministro dell'Economia, Daniele Franco (Photo: FABIO FRUSTACI ANSA)
Il presidente del Consiglio, Mario Draghi e il ministro dell'Economia, Daniele Franco (Photo: FABIO FRUSTACI ANSA)

A inizio anno si assiste sempre ad una pioggia di previsioni: tra i settori più scrutati quello economico. Si ingaggiano regolarmente in questo esercizio tutti i principali outlet economici e finanziari: tra i più letti sono i pronostici di Financial Times, Economist o Bloomberg Intelligence. Inoltre molto atteso è l’appuntamento con le Predictions and Prescriptions di Breakingviews, il booklet curato da Rob Cox, quest’anno dedicato: A World in Transition. The Mega Shifts Shaping Finance, Business and Economies.

Mi impegno inopinatamente in questo esercizio, circoscrivendolo però ai temi del debito e della finanza pubblica italiana.

Cominciando dai numeri: è prevedibile che le previsioni del Governo siano da rivedere in positivo. Molti concordano che il rapporto debito/Pil potrebbe essere inferiore al programmatico indicato in 149,4% dalla Nadef del settembre scorso, che aveva già rivisto al ribasso il 156,3% del Def della primavera.

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Proprio sul miglioramento del fabbisogno si è pronunciato espressamente il direttore generale del Tesoro Alessandro Rivera in dicembre, peraltro sottolineando che il costo medio della raccolta ha raggiunto nel 2021 il minimo storico per l’italia pari allo 0,1 e il debito ha ormai una vita media di 7,2 anni. Il Btp trentennale, emesso con successo a inizio 2022, ricade in questa strategia di allungamento del debito.

Naturalmente avrebbero un forte impatto negativo su deficit e debito nuovi lockdown e gli inevitabili round di misure di ristoro e compensazione. Al momento, gli effetti economici della variante Omicron sembrano limitati ad alcuni settori specifici, in primis travel e horeca. Così come avrebbe un effetto di appesantimento dei conti pubblici, qualora fosse ulteriormente estesa, la fiscalizzazione degli aumenti di bolletta elettrica e gas, introdotta per limitare il caro energia degli ultimi mesi.

Sul lato della politica monetaria, il percorso di rientro dalle misure straordinarie degli ultimi anni sembra ormai ben tracciato dalla Bce almeno per l’anno in corso. I principali interrogativi riguardano infatti il 2023, anno del probabile rialzo dei tassi. Ben delineata è la fine del programma emergenziale di acquisti a fine primo trimestre e l’utilizzo del programma ordinario a scaglioni progressivamente decrescenti per i rimanenti tre trimestri. Tuttavia, è probabile che la asincronia del ciclo tra Bce e Fed porti volatilità sui mercati obbligazionari e del credito e abbia ripercussioni su quello dei cambi. La Fed è infatti più avanti nel processo di “normalizzazione”: le recenti minutes del Fomc suggeriscono che il 2022 potrebbe vedere non solo l’aumento dei tassi (due, tre o quattro volte?), ma anche l’inizio di un vero quantative tightening. La riduzione del bilancio della banca centrale è visto infatti da alcuni come potente strumento anti-inflazionistico.

E si giunge così al tema dell’inflazione. Qui non vi sono pronostici ragionevoli, a parte che l’inflazione sarà ancora per il 2022 la singola questione più dibattuta. Nonostante il chairman Powell abbia mandato in pensione il concetto, continuano le schermaglie tra le fazioni “team transitory” e “team permanent” sulla natura delle tendenze inflazionistiche. Proprio i dati di venerdì scorso mostrano nell’Eurozona per dicembre una salita dell’inflazione attorno al 5%, ai massimi da molti anni. Questo dibattito è reso particolarmente complesso dall’intrecciarsi di elementi contingenti, quali i prezzi dell’energia, i colli di bottiglia sulle catene del valore e altri effetti di dislocazione dovuti alla pandemia, e trend secolari che tirano in direzioni opposte, dal processo di transizione energetica alla decrescita demografica.

Isabel Schnabel della Bce ha proprio recentemente sottolineato i rischi inflattivi di politiche di transizione energetica più aggressive, quali l’introduzione di una carbon tax. Altri osservatori, oltre a sottolineare - come fa peraltro la stessa Schnabel - che la dinamica salariale è rimasta moderata, ritengono che le tendenze strutturali deflazionistiche che hanno dominato gli ultimi trent’anni siano ancora presenti e finiranno per prevalere nel medio termine. Altri ancora notano come certe pressioni inflazionistiche contingenti si stiano già allentando. Per esempio, il prezzo medio del trasporto di container (Global Container Freight Index) è ormai stabilmente e materialmente sotto i massimi raggiunti in autunno. Infine un interessante studio della Banca dei Regolamenti Internazionali, sottolinea quanto l’impatto dell’aumento di prezzi in settori specifici possa essere responsabile per gran parte delle fluttuazioni degli indici.

Infine la politica fiscale: i governi europei, il nostro in primis, sono impegnati in una manovra di progressivo, scadenzato rientro dalle misure straordinarie prese durante la pandemia senza però soffocare la forte ripresa in corso (la previsione del Governo per il 2022 è del 4,7% di crescita). La legge di bilancio 2022 rimane ancora in territorio ampiamente espansivo. Nel lungo termine la sfida è stabilizzare la ripresa e rendere sostenibile nel tempo la crescita attorno al 2% annuo. Si tratta di obiettivo rimasto inatteso negli ultimi 20 anni. In questo quadro, le regole fiscali europee giocheranno un ruolo cruciale. È facile previsione che il 2022 sarà un anno decisivo per il negoziato sul nuovo quadro fiscale europeo, sospeso nella versione attuale fino al 2023. Il premier italiano assieme al presidente francese, così come, in maniera più tecnica, i loro rispettivi consiglieri economici, hanno avanzato delle proposte di riforma. Vi sono ampi margini di negoziato ed evidentemente il nuovo Governo tedesco giocherà un ruolo maggiore. Tuttavia il quadro sembra oggi aprirsi a una riforma più profonda di quanto sembrava possibile qualche mese fa. Il maggiore spazio fiscale per investimenti chiesto da Draghi e Macron, costituisce assieme alle risorse e alle riforme del Pnrr l’elemento necessario per raggiungere quel 2% di crescita.

Crescita e inflazione al 2% costituiscono la goldilocks zone della nostra economia. È oggi questa previsione per gli anni a venire così irrealistica?

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.