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Dire parolacce (anche in pausa pranzo) può farti licenziare

Una commessa si lasciava andare a un linguaggio sboccato, con parolacce a condire il suo discorso. E ha continuato a farlo nonostante i richiami del direttore del negozio.
Una commessa si lasciava andare a un linguaggio sboccato, con parolacce a condire il suo discorso. E ha continuato a farlo nonostante i richiami del direttore del negozio.

Il posto di lavoro è sacro, anche se si è in pausa. A confermalo è stata la Cassazione, che ha dato torto a una lavoratrice che era stata licenziata per il suo linguaggio durante la pausa pranzo. Sì, perché se si decide di mangiare in ufficio o in negozio, piuttosto che uscire, bisogna ricordarsi che si è comunque sul posto di lavoro e ci si deve comportare di conseguenza.

E’ il caso di M. C., commessa a Bologna di una nota catena di profumerie, che passava la pausa pranzo in negozio, mangiando insieme ai colleghi. In un ambiente amichevole, socievole e la donna si adattava alla situazione. Quindi si lasciava andare a un linguaggio sboccato, con parolacce a condire il suo discorso. E ha continuato a farlo nonostante i richiami del direttore del negozio, il quale era intervenuto perché il linguaggio della dipendente era chiaramente udibile anche dai clienti nel negozio in quel momento.

Licenziata nel 2008, la donna ha fatto ricorso, con il suo avvocato che ha dichiarato inammissibile “che ai lavoratori dipendenti nei momenti della pausa di lavoro sia inibito un linquaggio adoperato normalmente da persone della stessa estrazione sociale, della stessa cultura e accomunate dalla familiarità che subentra in conseguenza di un lavoro quotidiano in uno spazio ristretto nell’azienda in cui operano”.

La dipendente, dopo il licenziamento, aveva subito fatto causa e una sentenza in primo grado e dalla Corte di Appello di Bologna nel 2014 avevano confermato il licenziamento. Per questo M.C. si è rivolta alla Cassazione, sperando in una soluzione diversa. I supremi giudici, però, le hanno dato torto, hanno dichiarato inammissibile il ricorso, e hanno condannato la commessa anche a pagare 3.100 euro di spese giudiziarie.