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Decreto Delocalizzazioni nelle mani di Draghi, potrebbe non salvarsi perfino il nome

Orlando / Bonomi (Photo: ANSA)
Orlando / Bonomi (Photo: ANSA)

La smentita di palazzo Chigi sull’inserimento del decreto anti delocalizzazioni nell’ordine del giorno del Consiglio dei ministri di giovedì non è solo una questione di agenda e quindi di priorità, il che è già un elemento degno di nota perché blocca la frenesia di chi, Pd e 5 stelle, voleva portare il provvedimento al primo Cdm utile dopo la pausa estiva (intanto siamo già arrivati al secondo). Le bozze che hanno alimentato una lite furibonda con Confindustria, scritte dal ministro del Lavoro Andrea Orlando e dalla viceministra allo Sviluppo economico Alessandra Todde, sono ora sulle scrivanie delle strutture tecniche della Presidenza del Consiglio. E lì resteranno per almeno una settimana. Quello della “draghizzazione” delle scelte è un metodo conosciuto, ma è forse il contenuto dell’operazione di pulizia del testo, meglio di riscrittura, a spiegare il ribaltamento di prospettiva del premier.

Nelle intenzioni dei suoi promotori, Orlando e Todde, questo decreto doveva e deve fissare un limite ai comportamenti definiti “selvaggi” da parte di quelle imprese che chiudono uno stabilimento in Italia, licenziano e trasferiscono la produzione all’estero. Il primo impianto, massimalista sul fronte delle sanzioni, ispirato a quella legge Florange che in Francia si è rivelata un flop, è stato man mano asciugato. Prima sono scomparse le multe e la black list, poi è stata messo in dubbio la previsione iniziale di far pagare dieci volte di più il cosiddetto contributo di licenziamento. Fin qui siamo alla descrizione, valida e necessaria, di un’impostazione che è opposta a quella degli industriali e anche a quello che pensano sia Draghi che Giancarlo Giorgetti, il titolare dello Sviluppo economico. L’ultima bozza del testo, che palazzo Chigi vuole cestinare, aggiunge un tassello in più: le imprese devono pagare le politiche attive, cioè i costi per le spese necessarie a formare e a riqualificare il lavoratore che perde il posto di lavoro con l’obiettivo di ricollocarlo.

Chi l’ha proposto lo legge come un punto di mediazione, capace di scavalcare la dicotomia tra chi vuole legare le imprese a impegni e obblighi perentori e chi pensa che invece un cappio troppo stretto può solo che disincentivare gli investimenti in Italia. Ma uscendo dalle logiche delle fazioni, questa misura prefigura un azzardo e cioè monetizzare le politiche attive. È un po’ come la logica del condono: tu impresa fai lo strappo e io Stato ti chiedo i soldi per pagare i costi della ricollocazione. Una logica che si può legare anche a un’altra misura inserita nella bozza e cioè allo stop a contributi e ai finanziamenti per cinque anni se l’azienda non presenta un Piano per limitare l’impatto dei licenziamenti con annesso pagamento delle politiche attive.

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Perché questa logica aggiunge un elemento di ulteriore distorsione nella gestione delle crisi d’impresa è da ricondurre ad almeno un paio di ragioni. La prima è dare per scontato che l’impresa che licenzia e lascia l’Italia ha a cuore un piano di ricollocamento. La seconda, collegata alla prima, è tirare fuori i soldi per costruire il futuro di un lavoratore che non sarà più il suo. Ma al di là dell’atteggiamento delle imprese, c’è un terzo elemento che chiama in causa anche lo Stato: far pagare alle imprese le politiche attive prefigura un disimpegno pubblico da quello che è un compito invece prioritario, soprattutto in un momento storico come è quello che sta attraversando il mercato del lavoro, travolto dal Covid e interessato dai cambiamenti della transizione ecologica e digitale.

Il tema della responsabilità sociale delle imprese è sacrosanto, ma governarla con i soldi è un’azione più vicina a una visione vessatoria che a un reale beneficio per il lavoratore. E se si passa dalla forma al contenuto, cioè dai soldi al come ricollocare il lavoratore che perde il posto, questo ragionamento rischia di trasformarsi ancora di più in un boomerang per il Governo. I soldi di per sé non sono sufficienti a garantire il successo delle politiche attive, come hanno dimostrato gli scarsi risultati degli ultimi anni, a iniziare da Garanzia Giovani. Le politiche attive vanno ricostruite con una governance, cioè una testa, differente rispetto a quella attuale, vanno sostenute con un efficientamento dei suoi rami operativi, quindi una ristrutturazione qualitativa e non solo numerica dei centri per l’impiego. Non è un caso se i lavori a palazzo Chigi sono tutti incentrati a inserire un pezzo o tutto il piano di Garanzia per l’occupabilità dei lavoratori (il piano per le politiche attive ndr) proprio nel decreto anti delocalizzazioni. L’idea di far pagare il costo alle imprese che se ne vanno, invece, è stata già accantonata. A Draghi interessa il come si può offrire a un lavoratore che perde il posto un percorso per reinserirlo nel mercato del lavoro. Ecco perché chiamarlo decreto anti delocalizzazioni potrebbe non avere più senso.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.