Annuncio pubblicitario
Italia markets open in 5 hours 52 minutes
  • Dow Jones

    38.460,92
    -42,77 (-0,11%)
     
  • Nasdaq

    15.712,75
    +16,11 (+0,10%)
     
  • Nikkei 225

    37.964,96
    -495,12 (-1,29%)
     
  • EUR/USD

    1,0704
    +0,0003 (+0,03%)
     
  • Bitcoin EUR

    60.324,30
    -2.085,25 (-3,34%)
     
  • CMC Crypto 200

    1.394,27
    -29,83 (-2,09%)
     
  • HANG SENG

    17.201,27
    +372,34 (+2,21%)
     
  • S&P 500

    5.071,63
    +1,08 (+0,02%)
     

Domenico De Masi: "Da smart working a gig economy, lo Statuto dei lavoratori è datato"

Domenico De Masi (Photo: Armando DadiArmando Dadi / AGF)
Domenico De Masi (Photo: Armando DadiArmando Dadi / AGF)

“Quando è stato scritto lo Statuto dei lavoratori non si sapeva cosa fosse Internet e se pensiamo che Instagram è nato solo undici anni fa è evidente che c’è da inventarsi un diritto che riguarda le nuove figure lavorative, ma anche creare nuovi Statuti per le novità che sono subentrate nel mondo del lavoro”. Domenico De Masi, tra i sociologi del lavoro più accreditati in Italia e professore emerito alla Sapienza, rilancia così il dibattito sullo Statuto dei lavoratori che Huffpost ha deciso di promuovere con l’idea di raccogliere idee e riflessioni per un aggiornamento della legge approvata nel 1970. “Non tutti i contenuti dello Statuto - dice ancora De Masi - sono eterni e ci sarebbero dei ritocchi da fare. Pensiamo alla possibilità di un lavoro ubiquo: basterebbe questo per modificare l’attitudine sbagliata a legiferare ancora in maniera analogica e non invece digitale”.

Professor De Masi, partiamo dall’inizio. Per molti, soprattutto a sinistra, lo Statuto dei lavoratori è un totem che può andare bene anche oggi. Lei come la pensa?

La struttura complessiva resta valida, ma non tutti i contenuti sono eterni. In parte dei ritocchi sono stati già fatti, ma ne servirebbero di altri. Quando lo Statuto è stato varato i lavoratori erano all’apice del potere contrattuale: venivamo fuori da un decennio di lotte e di movimenti, da Berkeley al maggio francese. Insomma era un momento in cui i lavoratori hanno potuto conquistare diritti importanti. Ma poi le cose sono andate diversamente e il ribaltamento che è sopravvenuto ci interroga anche sulle modifiche da apportare oggi allo Statuto.

ANNUNCIO PUBBLICITARIO

A quale ribaltamento si riferisce?

La conquista dei diritti da parte dei lavoratori di cui parlavamo poco fa ha scatenato una reazione in tutto l’Occidente. In qualche modo alla lotta di
classe dei lavoratori nei confronti dei datori di lavoratori è subentrata una lotta dei datori nei confronti dei diritti dei lavoratori. Come è finita ce l’ha detto Warren Buffet, uno degli uomini più ricchi del mondo: la lotta di classe esiste, ma sono i ricchi che la stanno conducendo e soprattutto che la stanno vincendo.

Questo ribaltamento di prospettiva come si traduce nel mondo del lavoro odierno?

Ad esempio nella difficoltà di configurare i nuovi diritti. In questa lotta c’è la figura ibrida del lavoratore della gig economy: non si capisce se il rider è un lavoratore o un datore di lavoro. Questa condizione non esisteva quando fu scritto lo Statuto: allora si era lavoratori dipendenti o indipendenti. Oggi invece abbiamo una terza figura che va regolamentata. Si è provato a farlo con il decreto Dignità, ma quella piccola vittoria dei lavoratori precari è stata congelata e probabilmente sarà eliminata.

Entriamo dentro questi nuovi diritti. Come si regolamentano?

Partirei dal metodo. Saranno regolamentati dai rapporti di forza: bisognerà vedere se saranno più a favore o contro i nuovi lavoratori. Oggi questi lavoratori sono debolissimi, non sono sindacalizzati, non sono contrattualizzati se non in modo ambiguo. Se ho una bici o uno scooter divento imprenditore di me stesso pur essendo dipendente della casa madre che mi paga, spesso in modo esiguo. Non c’è una forza sociale, la dialettica è scontata.

Detta così il tentativo di scrivere nuovi diritti per i nuovi lavoratori è destinato a fallire prima ancora di prendere quota.

Si parte da una situazione complessa, in cui i datori di lavoro sono abbastanza uniti e i lavoratori sono invece atomizzati, frammentati. Così non c’è lotta che tenga. Ai nuovi lavoratori legati alla gig economy bisogna dare una coscienza di classe, farli sentire parte di una rete. Poi ci sono altri tre fattori che possono evitare il fallimento del tentativo di cui parla.

Quali?

La forza del numero, la necessità dei lavoratori stessi di darsi un’organizzazione e l’individuazione della controparte. Il proletariato classico ha imparato da Marx al 1917, non è un processo rapido. Occorre un partito che si faccia carico di queste istanze, ci deve essere la capacità di creare dei leader e un’organizzazione. Sono processi sociali che richiedono tempo.

Torniamo ai contenuti, meglio al metodo. Su quali aspetti vanno calibrati i nuovi diritti?

Innanzitutto bisogna prendere coscienza del nuovo contesto. Lo Statuto è stato il punto terminale di una visione industriale del lavoro con parti ben definite: datore di lavoro, lavoratore e sindacato. La situazione è cambiata completamente e oggi la grande novità è la precarietà. Il mondo industriale puntava sulla sicurezza: un giovane lavoratore che entrava in fabbrica a 18 anni sapeva già in quale anno avrebbe avuto lo scatto di stipendio e quando sarebbe andato in pensione. L’irruzione della scolarizzazione diffusa, dello sviluppo organizzativo e dei media hanno creato una totale precarizzazione. Siamo arrivati al punto che anche lo Stato assume a termine.

Il nuovo campo di gioco è chiarissimo. Le nuove regole?

Bisogna capire chi le fa. Da una parte il problema è reso difficile dalla complessità che queste novità comportano quando si proiettano sul mondo del lavoro. Ci sono visioni opposte nel leggere queste novità: si possono leggere dal
punto di vista del lavoratore o di quello del datore di lavoro. L’importante è che ricordiamo che il nuovo diritto deve inserirsi in un mondo in cui riusciamo a produrre sempre più beni.

Cioè?

Nel 1901 gli italiani erano 40 milioni e lavoravano per 70 miliardi di ore. Nel 2019 gli italiani erano 60 milioni, hanno lavorato per 40 miliardi di ore e hanno prodotto centinaia di volte di più. Siamo in una lunga scia di sviluppo senza lavoro. Il lavoro diminuisce velocemente mentre aumentano i potenziali lavoratori. L’altro fattore da prendere in considerazione è la composizione del mondo del lavoro: nella metà dell′800 a Manchester, la città più industrializzata del mondo, il 94% dei lavoratori erano operai e solo il 6% manager e professionisti. Oggi in Italia abbiamo il 33% di operai, il 33% di impiegati e il 33% di creativi: significa che il 70% dei lavoratori sono cognitivi, lavoratori della mente, non del braccio.

In che direzione stiamo andando?

Il lavoro resta centrale, ma meno centrale rispetto alla Costituzione. Ci sono dei cambiamenti profondissimi di cui ancora non si tiene conto. Pensiamo alla possibilità di un lavoro ubiquo: basterebbe questo per modificare l’attitudine sbagliata a legiferare in maniera analogica e non invece digitale. Se chi legifera è analogico è evidente che le cose difficilmente cambieranno.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.

Leggi anche...