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Dopo il Pireo, Amburgo: la Cina fa ancora incetta nei porti Ue

Amburgo (Photo: Getty&HP)
Amburgo (Photo: Getty&HP)

La Cina prosegue indisturbata la sua avanzata nei porti europei. Dopo aver rafforzato di recente la presa sul Pireo, salendo al 67% del controllo dell’intera Autorità portuale PPA, la compagnia di navigazione del Governo Cinese, Cosco, ha raggiunto l’intesa per entrare nel terzo porto più importante dell’Ue, Amburgo. La notizia delle trattative era già trapelata alcune settimana fa, ora è arrivata l’ufficialità: la società di proprietà statale di Pechino (una Soe, state-owned enterprise), attraverso la sua controllata Grand Dragon, ha chiuso l’accordo con il terminalista tedesco Hhla per rilevare il 35% dei uno dei tre terminal, il Tollerort (Ctt), al prezzo di 65 milioni di euro, oltre a farsi carico di 35 milioni di debiti di Ctt con Hhla. Sebbene sia il più piccolo del porto tedesco, ogni anno muove circa 9,2 milioni di TeU (unità di misura dei container), circa un milione di Teu in meno delle movimentazioni di tutti i porti italiani nel loro insieme. Per entrare in vigore, l’intesa è tuttavia sottoposta ad alcune condizioni, come il nulla osta da parte dei ministeri dell’Economia e dell’Energia e l’ok delle autorità antitrust. In cambio, Cosco - che non è solo un operatore terminalista ma anche la quarta (presto probabilmente terza) compagnia di navigazione al mondo - farà di Amburgo il suo “hub preferito” per l’ingresso delle sue merci in Europa, ma il terminal continuerà ad essere aperto a tutti i clienti delle compagnie di navigazione, hanno sottolineato dal porto tedesco.

Il sindaco di Amburgo ha salutato positivamente l’accordo, ma l’annuncio non è stato accolto con favore unanime. Nella città anseatica diversi partiti lo hanno contestato, come riporta l’agenzia Dpa. “L’ingresso delle aziende cinesi nelle infrastrutture critiche tedesche richiede una discussione parlamentare del Bundestag e della cittadinanza”, ha attaccato il partito liberale Fdp. La sinistra ha bollato l’operazione come “una provocazione” mentre per l’estrema destra di AfD “il Partito comunista cinese ora ha un’influenza sul nostro porto”. La notizia è quindi destinata a far discutere anche perché Cosco sarà il primo operatore non tedesco a entrare nel porto più importante della Repubblica Federale. E non un operatore qualsiasi ma di proprietà statale di Pechino, che risponde pertanto alla Commissione speciale per la supervisione e l’amministrazione dei beni di proprietà della Repubblica Popolare, la Sasac. In altre parole, deve dare conto dei suoi risultati e obiettivi finanziari e operativi direttamente al supremo organo amministrativo della Cina, il Consiglio di Stato, e quindi al Partito Comunista Cinese.

I timori quindi che la presenza di un operatore statale estero possa avere implicazioni non solo di natura commerciale ma anche politica si sono riaffacciati come sempre avviene quando delle Soe cinesi entrano con forza nel mercato interno dell’Unione Europea. Chi gioisce dell’intesa sono i media statali di Pechino. “L’accordo”, ha detto Cosco al tabloid comunista Global Times, “rafforzerà la posizione dell’azienda nel trasporto marittimo nei paesi europei e in quelli lungo la Belt and Road Initiative”, anche perché nei primi otto mesi dell’anno, l’Ue è stata il secondo partner commerciale della Cina con un commercio bilaterale in crescita del 22,1% su base annua a 530 miliardi di dollari.

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Un analista sentito da GT ha affermato che la penetrazione cinese negli Stati Uniti non va di pari passo: “L’attuale contesto economico tra Cina e Stati Uniti non è molto favorevole e i segnali di cooperazione non sono forti, ma la Cina e gli Stati Uniti dovrebbero aumentare la cooperazione nel settore marittimo”. In Europa invece l’andazzo è ben diverso, e Pechino ha già messo le sue bandierine in tutti i più importanti porti del Vecchio Continente. Come titola Global Times, con l’accordo raggiunto su Amburgo, “Cosco espande la sua presenza in Europa”, che è già molto forte. Poche settimane fa, come detto, il colosso cinese dei container ha aumentato la sua quota di controllo sull’Autorità Portuale del Pireo, in Grecia, salendo al 67% dal 51% rilevato in seguito alla privatizzazione imposta dalla crisi del debito sovrano nel 2015. In Spagna, Cosco ha rilevato nel 2017 il 51% di Noatum Port Holdings che gestisce terminal container a Valencia e a Bilbao, oltre a gestire scali ferroviari a Madrid e Saragozza. In Belgio ha l′85% del Cosco Zeebrugge Terminal e il 20% di un terminal ad Anversa, il secondo maggiore scalo dell’Ue. Il primo è Rotterdam dove pure è presente Cosco, con il 35% di Euromax. In Italia invece detiene il 40% del terminal container di Vado Ligure, dove un altro 9,9% è in capo al porto di Quingdao.

(mappa a cura di Livia Paccarié)

La presenza cinese però è molto ramificata e non passa solo da Cosco. Un’altra società di proprietà statale, China Merchant Port, possiede il 49% delle quote di Terminal Link - una joint-venture con la francese CMA CGM - che gestisce scali ad Anversa in Belgio, Montoir, Dunkirk, Le Havre e Marsiglia in Francia, Salonicco in Grecia e Marsaxlokk a Malta. Non è finita, perché la presenza cinese nei porti dell’Unione Europea passa anche dalle sue aziende non statali. E in particolare da Hutchinson Port Holding, il secondo terminalista al mondo dopo l’operatore di Singapore Psa. Hph possiede quote nei porti di Rotterdam, Stoccolma, Barcellona, Felixstowe, Harwich e nel Kent in Gran Bretagna, e Gdynia, nella baia di Danzica in Polonia. Opera poi come terminalista ferroviario a Venlo, Moerdijk e Amsterdam in Olanda, Willebroek in Belgio e a Duisburg, in Germania, il più grande porto (fluviale) intermodale al mondo capace di movimentare ogni anno ventimila navi e venticinquemila treni, un gioiello di logistica integrata. Pur non essendo di proprietà statale, in Cina le società private sono comunque molto sensibili alle istanze politiche e strategiche della Repubblica Popolare, come dimostrato ad esempio dalla recente svolta di Pechino sui colossi del Big Tech.

Nel novembre del 2019, ricorda poi un rapporto dell’Istituto olandese per le relazioni internazionali Clingendael, Cosco ha acquisito il 60% della Pearl, una compagnia ferroviaria con sede nel Pireo, per sviluppare i traffici su ferro e via mare tra Cina e Paesi dell’est Europa. Poco dopo ha rilevato una partecipazione del 15% del Rail Cargo Terminal-Bilk, un terminal ferroviario di Budapest con una capacità annuale da 230mila Teu. L’Europa centrale e orientale è una destinazione privilegiata per gli investimenti della Repubblica Popolare. Dal 2009 ad oggi, si legge in un recente paper del Center for Study of Democracy, nella regione sono arrivati 14 miliardi di dollari sotto forma di sussidi, prestiti, acquisizioni e concessioni, focalizzati essenzialmente in trasporto, energia, manifattura e telecomunicazioni. “La Cina si è gradualmente inserita nel vuoto di potere lasciato da Ue e Usa nell’Europa centrorientale”.

Sempre Cosco, inoltre, detiene quote in aree di influenza del sud Europa, come lo scalo di Alessandria in Egitto, e il 20% sia nel Red Sea Gateway sia nel terminal container da oltre cinque milioni di Teu di Port Said, insomma alle due imboccature del Canale di Suez, la via d’acqua commerciale che collega il Mar Rosso al “mare nostrum” da cui passa il 30% delle portacontainer e il 12% del traffico di merci a livello mondiale, per un valore complessivo (non solo container) da dieci miliardi al giorno.

Se dovesse passare il vaglio autorizzativo, l’investimento cinese ad Amburgo che ne farebbe lo scalo “preferito” per il colosso dei container, consoliderebbe le relazioni commerciali tra le due Repubbliche, quella federale e quella popolare. L’anno scorso, la Germania ha importato merci per un valore di 116,3 miliardi di euro dal Dragone, un aumento del 5,6% rispetto al 2019. Quanto alle esportazioni tedesche verso la Cina, sono rimaste quasi inalterate, con un calo dello 0,1% su base annua fino a 95,9 miliardi di euro. Berlino esporta in Oriente tra le altre cose autoveicoli, componenti, macchinari, velivoli, mentre importa strumentazioni tecnologica, pc, semiconduttori, batterie elettriche, trasformatori.

Negli ultimi anni sono stati creati più di 230 collegamenti tra venti destinazioni cinesi e il porto di Amburgo, con un incremento notevole dei traffici (l’anno scorso +7%) arrivato oltre quota 100mila Teu. Si calcola che poco meno di 40 treni circolano tra diverse aree del Paese orientale e il più grande porto ferroviario d’Europa ogni settimana. Già attualmente il porto della città anseatica gestisce quasi un container su tre proveniente da o diretto in Cina. “Il mondo marittimo sta attualmente affrontando un intenso cambiamento. Le relazioni di fiducia a lungo termine con i clienti, come quelle che Hhla ha coltivato per 40 anni nel commercio con la Cina, sono molto più importanti ora”, ha affermato Angela Titzrath, presidente del cda del terminalista tedesco. Nella città anseatica ha peraltro sede la Diamond Line GmbH, la società di Cosco per la gestione dei servizi intra-europei.

Al di là di Amburgo, dove Cosco avrebbe una quota di minoranza nel terminal più piccolo, l’investimento è da inserire nel suo contesto, quello della Nuova via della Seta, la strategia geoeconomica di Pechino per entrare nella gestione di infrastrutture portuali, retroportuali o ferroviarie, incrementando i traffici commerciali e garantendo così sempre maggiori sbocchi alle imponenti esportazioni di materie prime, semilavorati e prodotti made in China da cui l’economia del dragone è ancora fortemente dipendente. Una presenza all’apparenza solo commerciale ma che in passato ha comunque pesato sulle decisioni politiche assunte dai Paesi in cui i colossi statali di Pechino avevano investito, quando le questioni riguardavano la Cina. Per Clingendael, gli investimenti portuali “possono rendere il Paese che li riceve economicamente dipendente da chi li realizza, funzionando così da fonte indiretta per esercitare una leva politica”. Fino ad oggi, d’altronde, nell’ambito della Belt & Road, la portualità estera ha assorbito più di 25 miliardi della spesa infrastrutturale cinese. E non mancano certo i casi in cui la presenza economica di Pechino in un Paese si sia tradotto in una forma di influenza politica indiretta.

Durante il cancellierato di Angela Merkel, i rapporti tra Cina e Germania si sono intensificati costantemente. Dal 2015, sotto la sua guida politica , il paese asiatico è diventato il primo partner commerciale di Berlino. La leader conservatrice, che alla fine di questa settimana uscirà dalla scena politica dopo 16 anni di potere, è stata in Cina ben 12 volte. Durante il semestre europeo a guida tedesca Merkel ha speso tutte le sue forze per arrivare alla firma del Comprehensive Agreement on Investment (CAI), l’accordo per dare un’unica cornice legale agli investimenti cinesi in Europa. Anche perché le storture soprattutto dal punto di vista della reciprocità negli anni sono state tante. Un’impresa Ue in Cina può accedere solo a posizioni di minoranza nel settore marittimo, aeronautico, nelle centrali nucleari, nella costruzione e gestione di reti elettriche, ferroviarie, o negli aeroporti civili, nelle aziende di telecomunicazioni. Nel capitale delle banche un investitore europeo non può salire sopra il 20%, e non oltre il 50% nelle compagnie assicurative, come ha rilevato un rapporto del Centro comune di ricerca (JRC) della Commissione Ue. L’intesa è stata poi congelata da Bruxelles dopo le sanzioni di Pechino nei confronti dell’Europarlamento. Dall’accordo avrebbero di certo tratto vantaggio le aziende tedesche che, come visto, sono molto presenti nel mercato cinese. Il 16 settembre scorso il Parlamento Ue ha approvato una risoluzione a larga maggioranza con 570 voti a favore per una nuova strategia Ue-Cina basata su sei pilastri, ma puntualizzando che il processo di approvazione del Cai non riprenderà fino a quando Pechino non avrà ritirato le sanzioni verso parlamentari e istituzioni europee.

Sotto la guida di Merkel, col fiorire dei traffici, l’abbraccio tra l’aquila e il dragone si è consolidato negli anni. Dopo le elezioni federali di domenica, dall’esito ancora molto incerto, e con l’uscita di scena della cancelliera dopo tre lustri di potere incontrastato, l’assetto politico tedesco potrebbe mutare drasticamente, e con esso anche l’approccio tedesco nei confronti di Pechino, fino ad oggi molto distensivo. Il leader dei liberali di Fdp, Christian Lindner, potrebbe trovarsi a fare da ago della bilancia nella futura coalizione, “Giamaica” (Cdu, Verdi, Fdp) o “semaforo” (Spd, Verdi, Fdp). “La Germania dovrebbe ridurre il commercio con la Cina mediante accordi di libero scambio con altri Paesi, che facilitino le esportazioni tedesche in altri mercati”, ha detto Lindner nell’ultimo dei confronti tra i candidati cancellieri nei quali il tema Pechino non è stato affrontato in maniera approfondita. “Dobbiamo mantenere le nostre considerazioni politiche allineate ai nostri interessi economici. Ma gli interessi economici in questo momento sotto la cancelliera Merkel hanno superato tutte le altre considerazioni, e questo è l’approccio sbagliato”, ha affermato il portavoce della politica estera dell’Fdp, Alexander Graff Lambsdorff. Il riferimento è in particolare alle politiche green per la riduzione delle emissioni e al rispetto dei diritti umani.

Prese di posizione più nette rispetto a quelle assunte in passato dalla cancelliera uscente sono arrivate anche dalla leader dei Verdi Annalena Bearbock. Con la Cina serve “maggiore durezza”, ha detto durante il primo confronto tra candidati, introducendo ad esempio un divieto all’importazione nell’Ue dei prodotti fabbricati in Cina con l’impiego di lavoro forzato. L’eurodeputato tedesco dei Verdi Reinhard Bütikofer, già oggetto delle sanzioni di Pechino, ha dichiarato ad Al Jazeera che “la politica della Germania verso la Cina è fortemente sbilanciata verso gli interessi di alcune multinazionali a scapito di altri settori della nostra economia, e certamente a scapito dei nostri valori e delle preoccupazioni per la sicurezza”. Se da un lato la politica accomodante della Merkel ha trovato il favore della potente lobby dell’automotive tedesca (nel 2019 il valore dell’export di auto verso Oriente ha superato i 17 miliardi) non tutto il settore industriale del Paese ha tratto giovamento dall’aumento dei traffici con Pechino. Nel 2019 la Federazione delle industrie tedesche ha pubblicato un duro rapporto che definiva la Cina come un “concorrente sistemico” e che sollecitava Bruxelles ad adottare leggi per arginare le industrie cinesi sussidiate dallo Stato. “Dopo le elezioni, cambieremo verso un approccio più europeo”, ha affermato Bütikofer. “Un approccio più critico, in linea con l’opinione pubblica tedesca e l’atteggiamento mostrato dalle principali associazioni industriali”.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.