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Estate 2021: la tempesta perfetta di Francesco

(Photo: Vatican Pool via Getty Images)
(Photo: Vatican Pool via Getty Images)

Come se il mondo - credendo di uscire dal Covid - avesse riacceso i motori e ripreso, tutte insieme, le crisi e le rese dei conti rimaste in sospeso: non solo nella comunità internazionale (tra cinesi e americani, tra israeliani e palestinesi), ma pure all’interno di quella ecclesiale (tra gli episcopati tedesco, audacemente progressista, e statunitense, pervicacemente conservatore). Con immancabile riverbero sui rapporti con l’Italia, che del papato costituisce dal tempo di Costantino il retroterra strategico.

E come se, in simbiosi con il meteo impazzito dell’estate 2021, fra trombe d’aria e cappe di calura, gli sbalzi a ripetizione lasciassero intravedere un guasto sistemico: sintomatico del cambiamento d’epoca, che inficia gli equilibri strutturali, non solo congiunturali dell’istituzione.

Al punto che una trasferta scivolosa, come quella che a settembre attende Francesco a Budapest, nel “parco avventura” del sovranista Orbán, per celebrare il congresso eucaristico sull’altare di un paese “scomunicato” dall’Europa, presenta un effetto collaterale tutto sommato prevedibile, di fronte alla sfida, e partita, di converso imponderabile che a ottobre andrà in scena in casa, nell’area di rigore del Tribunale Vaticano.

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A riguardo, e a prescindere dagli esiti processuali, occorrerà sondare i mutamenti profondi, subliminali, che la mera immagine di un cardinale alla sbarra, Giovanni Angelo Becciu, davanti a un collegio di magistrati laici, all’ombra della cupola e a coté del Giudizio Universale di Michelangelo, innesca nella coscienza dei fedeli, stravolgendo la percezione della scala gerarchica.

Nel frattempo, quasi emulando il supplizio antico dei due cavalli, comminato ai martiri, Germania e Stati Uniti pongono in essere, possenti e impazienti, un tiraggio che rischia di mandare in pezzi teologici e geografici, oggigiorno, il Corpus Ecclesiae, sotto il duplice profilo della disciplina e della dottrina.

Motivo per cui la Curia si sente labile, instabile, insicura (perfino “entro le mura”, come dimostra il processo a Becciu, “ministro dell’interno” per un settennato). E considera irrinunciabile attorno a sé la zona di garanzia e fascia di sicurezza del Belpaese: un terreno che lo scontro sul DDL Zan - indipendentemente dall’oggetto specifico del contendere -, ha reso incerto e ristretto improvvisamente, spingendo i prelati per la prima volta in nove decadi a guardare Oltretevere con altra ottica e guadare il Rubicone della protesta diplomatica, vista l’impraticabilità dei consueti ponti con le segreterie di partito.

Mossa che marca un giro di boa. Una inversione di flussi e d’influenze tra le rive del fiume. Con il Vaticano, accusato per mezzo secolo d’ingerire nelle leggi della Repubblica, che contesta invece a quest’ultima di sbarcare sulla sua sponda e interferire nei precetti del catechismo: dove al netto della revisione in corso per impulso di Francesco permangono “espressioni della Scrittura e della tradizione” (dalle Lettere di San Paolo alle Confessioni di Sant’Agostino, entrambe particolarmente dure), che un giudice potrebbe ritenere sanzionabili e che la Chiesa reputa viceversa non negoziabili, si legge nella missiva del Ministro degli Esteri, Monsignor Gallagher. “Con conseguenze paradossali da evitare finché si è in tempo”, aggiunge il Cardinale Parolin, evocando il sospetto di un vulnus – un dato di assoluta novità - e invocando il rispetto del Concordato. Mentre il fronte del no ai desiderata ecclesiastici – ulteriore mutazione di rilievo ed evoluzione delle specie politiche – annovera una prima linea di cattolici “adulti”, dall’“andreottiano” Giuseppe Conte all’“andreattiano” Enrico Letta.

È comunque in una prospettiva globale, non sottovalutando ma nemmeno enfatizzando la dimensione locale, che si colloca e si deve analizzare l’atto nei confronti del Governo Italiano: alla stregua di una sortita che si oppone a un provvedimento legislativo mirato ma suppone il sentore di un accerchiamento generalizzato (dal medesimo pulpito dell’aereo papale, in cui ha pronunciato con efficacia irreversibile il celebre “chi sono io per giudicare un gay”, Bergoglio ha denunciato per contro la “guerra mondiale” – sic - della “teoria gender”). A significare che per lui, come abbiamo scritto in passato su queste pagine, gay sembra non coincidere ma semmai collidere semanticamente con gender: nel senso che l’uno, ai suoi occhi, designa, e difende, un orientamento naturale. L’altro delinea e diffonde - sono parole sue -un “indottrinamento” culturale. Argomento discutibile sotto il profilo antropologico ma utile sul piano geopolitico, in fase di analisi, a ricostruire la genesi e dietrologia di un arrocco in cui la torre della diplomazia, come nel gioco degli scacchi, muove di pari passo con il re.

Intanto, le due locomotive finanziarie, Stars and Stripes e teutonica, che trainano economicamente il Vaticano, scalpitano a tutto motore in direzioni opposte. Accomunate nel primo step dalla richiesta di tolleranza zero - declamata sulla carta e non ancora organicamente realizzata -, verso i presuli che a seguito del silenzio sugli abusi hanno perso irrimediabilmente la fiducia del popolo. Ma divaricate sulla destinazione finale del convoglio. Con i vescovi tedeschi che premono per benedire le coppie omosessuali e aprire, nel lungo periodo, al sacerdozio femminile, frenati da Pietro Parolin, intervenuto recentemente in loco. Mentre gli americani, fosse dipeso da loro - fermati anch’essi da Roma, in extremis, con pugno di ferro e guanto di velluto dal bergogliano Ladaria Ferrer, prefetto dell’ex Sant’Uffizio – avrebbero tirato ad escludere dalla comunione sacramentale il presidente cattolico, Joe Biden, colpevole di sostenere la legge sull’aborto e unire civilmente, da vice di Obama, due collaboratori gay della Casa Bianca. Sentenziando un clamoroso e oneroso divorzio tra White House e la Conferenza Episcopale, con relativa politicizzazione dell’eucaristia.

Nemesi e sintesi, epilogo e apologo di un papato avvezzo a occupare spazi e oscillare disinvoltamente, alla scuola di Perón, tra destra e sinistra. E tuttavia costretto, nello scorcio del pontificato, ad essere trascinato dall’una e dall’altra, mentre il margine di manovra si restringe drasticamente, drammaticamente sotto i piedi e incombe inesorabile, su di lui, la sindrome di Pio IX: dei papi che debuttano progressisti e tramontano conservatori.

Tale risulta oggidì Francesco a un confronto con il cardinale “socialista” – nomen omen – Reinhard Marx.

In ossequio al richiamo magnetico che un cognome come il suo reca con sé, le dimissioni dell’arcivescovo erede di Ratzinger a Monaco di Baviera, ufficializzate in giugno (ma non formalizzate) nonché respinte con tratto studiato e impatto immediato dal Pontefice, potrebbero ripetere infatti e ripercuotere sulla Chiesa, dopo un secolo e mezzo, l’excursus ed effetto sismico del “manifesto” pubblicato nel 1848 dall’illustre omonimo, “inventore” del comunismo. Inaugurando una fase improbabile ma verosimile di “lotta di classe”. Non però tra proletari e capitalisti, antinomie di per sé ascrivibili all’economia e al materialismo. Bensì tra laici e chierici, categorie scientificamente riconducibili, queste sì, alla teologia e al catechismo. Propugnando in ambedue i casi una redistribuzione del potere tra gruppi sociali.

Se il Manifesto di Carlo Marx preconizzava felicemente il collasso del capitalismo, quello di Reinhard stigmatizza funestamente il “punto morto” (“toter Punkt”, inconcepibile in un credo fondato sulla risurrezione, come dire un Venerdì senza Domenica) del clericalismo: cioè l’incapacità della gerarchia, e in generale della “casta” sacerdotale, di autoriformarsi e rigenerarsi progressivamente da dentro, ma solo traumaticamente, attraverso una spallata e rimozione indotta da fuori.

Risiede qui la ragione profonda dell’iniziativa del porporato, quale conseguenza di “catastrofi” a epicentri multipli, provocate - propagate dagli abusi del clero: Cile, Pennsylvania, Polonia e quindi Colonia report (che rende vacillante la posizione del cardinale Woelki, suo competitor conservatore tra i vescovi della Bundesrepublik), per restare soltanto ai casi più clamorosi: che fiaccano lo spirito del nuovo mondo, dalle Ande a Filadelfia, e affannano il respiro di quello vecchio, dal Reno alla Vistola.

Un fenomeno del quale tre anni fa, nell’agosto 2018, il Pontefice aveva evidenziato con duplice attributo il carattere ormai globalizzato e non localizzato, per “grandezza” e “dimensione”, additando espressamente il male oscuro del clericalismo e appellandosi peronisticamente, in una lettera senza precedenti, al popolo di Dio.

Già, Bergoglio.

Come in un classico Argentina – Germania, Bergoglio ha sciorinato le abilità della casa, sgusciando con fantasia fra le argomentazioni e geometrie lineari del panzer tedesco. Piazzando last minute le sue conclusioni con tocco morbido all’incrocio “dei pali”, e paletti dialettici, dell’interlocutore: “E questa è la mia risposta. Continua quanto ti proponi, ma come arcivescovo di Monaco e Frisinga”.

Come nel calcio tuttavia, i lanci lunghi alla Beckenbauer provenienti dalla Baviera depositano in area, nel recinto di San Pietro, e lasciano sul terreno una serie di problematiche, antropologiche, irrisolte. Suscettibili di scompigliare gli assetti difensivi della Chiesa, e della dottrina, nell’arco della decade incipiente.

Un carico esplosivo e infiammabile, divisivo e forse ingestibile, che il Papa vorrebbe rimandare, dirimente, al mittente sui binari di altrettanti sinodi nazionali, ma che per il momento è costretto a ritardare, a dispetto della propria indole propulsiva di apripista, per non alimentare le spinte centrifughe.

Così, dopo gli strali della destra curiale, Francesco è assurto a bersaglio della sinistra ecclesiale, che si sente tradita: esito paradossale, a cui solo una lettura geopolitica, non ideologica del fenomeno assicura profondità e ampiezza. Soprattutto, discernimento del rischio: a fronte di uno scisma, e sisma, che non staccherebbe soltanto un pezzo, bensì spaccherebbe in blocchi l’Orbe cattolico, a cominciare dall’Urbe, teatro di una tempesta perfetta, che investe, alternando l’accento, “princìpi” e “prìncipi” della Chiesa. I fondamenti antropologici e quelli gerarchici. Punti cardinali e cardinali “imputati”.

Dalla Nota Verbale sulla legge Zan alla “lettera di richiamo” sulla comunione a Biden, dalle dimissioni, rientrate, di Reinhard Marx, alle dichiarazioni, reiterate, d’indipendenza dell’episcopato yankee (che ha plebiscitato alla presidenza l’opusdeino arcivescovo di Los Angeles Horacio Gomez, ignorato sistematicamente dal Papa nell’attribuzione delle porpore), l’anno ventunesimo del ventunesimo secolo ci consegna il profilo, insolito, di un Bergoglio “centrista” e d’interdizione, zigzagante a destra e sinistra, preoccupato per l’unità. Insieme al prospetto, inedito, di un cristianesimo a geografie, e teologie, variabili.

Fughe in avanti e divaricazioni che lasciate a sé stesse, sul binario dei sinodi nazionali, potrebbero dilatarsi oltre il punto di non ritorno ed esigono, piuttosto, il luogo di raccordo e snodo largo di un concilio: se pensiamo che il Vaticano II appartiene ormai non solo all’orizzonte di un’altra epoca, bensì ad un altro mondo, prima del web e della globalizzazione, del gender e della secolarizzazione, della ecologia e della finanziarizzazione dell’economia, della impresentabilità dei chierici e dell’assunzione di responsabilità dei laici.

Concilio, dunque. Parola tuttora improferibile, che il prossimo Papa però (probabilmente un Paolo Settimo altrettanto mediatore ma più mediatico) dovrà prendere quanto meno in considerazione: con tutte le svolte, virtuose, che ne ascendono e rivolte, tumultuose, che ne discendono.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.