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Quando la guerra di genere si trasferisce ai brand

Ai consumatori di sesso maschile spesso non piace l'ampliamento del target di un marchio ritenuto identitario

Consumatrici

Il gender è sempre più cruciale nel dibattito pubblico, soprattutto in relazione ai diritti e al lavoro. Ma anche la pubblicità e il marketing sono un campo interessante per capire come agiscono le logiche di genere; e, come dimostrano alcuni esempi, la gender contamination dei marchi, ovvero l'estensione di un brand o di una linea di prodotti a un pubblico che sessualmente non si identifica con esso, non sempre viene apprezzata e capita dai consumatori più fedeli, specialmente se questi ultimi sono uomini.

Un fenomeno attentamente studiato da Jill J. Avery, ricercatrice all'Harvard Business School, secondo cui quando l'identità di un brand si amplia, per parlare a un pubblico femminile, i maschi ne risentono, soprattutto nel caso di marche comunemente riferite alla loro identità.

Gli esempi non mancano, basterebbe pensare anche alla Coca Cola, che, non riuscendo a far amare al pubblico maschile la Diet Coke, ha lanciato la Coke Zero,  con un packaging più aggressivo, nero e non argento, e levando il riferimento netto alla dieta, percepito come femminile dalla platea degli uomini. Il posizionamento, anche pubblicitario del nuovo prodotto, era nettamente rivolto ai maschi.

Secondo Avery, l'azienda ha percepito che sebbene i maschi avessero a loro volta bisogno di bere una bevanda a basso contenuto calorico, preferivano farlo attraverso un marchio e un prodotto concepito solo per loro. Lo studio di Avery più interessante sul tema è quello dedicato agli utenti di Porsche, all'indomani della svolta con la quale il marchio ha lanciato sul mercato la Cayenne, che, non solo in America, è percepita come auto femminile, se paragonata ai “bolidi” dalla linea sportiva del marchio.

Già uno studio di Avery nel 2007 dimostrava che il 91% di coloro che nei film al cinema e alla tv guidano Porsche sono personaggi di sesso maschile. Il Suv, invece, era percepito come femminile: la studiosa ha monitorato per due anni, prima e dopo il lancio del Cayenne, le conversazione on line dei membri di una brand community Porsche, e ha scoperto che per molti era un problema pensare che la loro casa automobilistica preferita si fosse messa a fare macchine  percepite come femminili.

Ha argomentato i risultati in “Defending the Makers of Masculinity: Consumer resistance to brand gender -bending”.Più realisti del re, questi signori, proprietari di Porsche in alcuni casi, erano preccupati che il lancio del suv potesse cambiato la percezione del marchio e indirettamente anche la loro immagine. L'idea che il Suv fosse guidato da signore che portavano i figli a fare hockey a molti non andava giù. E non mancavano nemmeno delle strategie di difesa, spiegati da Avery nel working paper Saving Face by Making Meaning: Consumers' Self-Serving Response to Brand Extensions: tra queste, la delegittimazione che la Cayenne fosse di fondo una vera Porsche, perché da sempre il marchio è associato alla guida sportiva.

Una sorta di diminutio, quindi, per evidenziare la distanza da un prodotto ritenuto incoerente, puntellato da conversazioni sulle caratteristiche tecniche del mezzo, che portavano quindi i clienti storici a definirla non una vera Porsche. E poi, nei casi più estremi, una sorta di dissociazione dal marchio, quasi vissuto come un traditore che aveva abbandonato la sua storica mission: molti hanno infatti scritto "Non mi definisco più un proprietario di Porsche, al massimo dico che possiedo una 911".


I fatti però hanno dato ragione alla celebre casa, almeno sul mercato: puntare sulle donne ha avuto senso, perchè non solo la Cayenne è l'auto più venduta della società in America, ma anche perché, ancora nel 2013, le signore hanno contribuito fortemente alle vendite. La Cayenne e la Panamera a quattro porte ne sono un esempio.

Quindi il cambio di indirizzo, la contaminazione ha fatto bene o no al marchio? Pare di sì, anche se solo alla lunga si potrà dire se questo fattore ha eroso una fascia di pubblico. Superato il caso di studio, la domanda permane: perché non tutti sono contenti quando un marchio estende la sua platea? Se nelle culture antiche il tocco femminile faceva perdere potere ai talismani, in quelle attuali, se la donna si inserisce in un contesto, dinamica, ambito maschile, fosse pure quello di un brand, gli equilibri saltano.

Poi, a far danni, anche la morale, ancora attuale, per cui una donna che mostra atteggiamenti o qualità maschili denota forza e spessore, mentre, a parti invertite, il maschio è meno virile se mostra prerogative tipiche dell'altro sesso. I residuati culturali sulle differenze di genere persistono, e non è una novità, in società avanzate ma che faticano a perdere il loro tratto androcentrico. La certezza è che i brand, se da un lato devono accettare che il pubblico abbia voce in capitolo sui loro significati, dall'altro possono compiere scelte per accorciare il gap e favorire un discorso non superficiale sulle loro stesse valenze identitarie.