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Giorgetti pensa al Nord abbandonato da Salvini e Berlusconi

The minister of the Economic development Giancarlo Giorgetti during the presentation of the train La dolce Vita, a luxury train made of old wagons that will tour Italy slowly bringing tourists to the most pleasant places of the peninsula. Rome (Italy), June 15th, 2021 (Photo by Samantha Zucchi/Insidefoto/Mondadori Portfolio via Getty Images) (Photo: Mondadori Portfolio via Getty Images)

“Lo chiamano in tanti modi: partito di Draghi, del Recovery, del Nord. Fatto sta che c’è una parte di Paese orfana di rappresentanza: gli elettori di Berlusconi e i delusi da Salvini” ragiona un forzista di rito governista. A questo pezzo d’Italia oggi è stato recapitato un messaggio chiaro, dal ministro dello Sviluppo Economico Giorgetti: a gennaio la musica cambierà, i partiti (Lega in primis) penseranno al loro tornaconto, nemmeno Draghi reggerà un anno di campagna elettorale permanente, se trasloca avremo De Gaulle sul Colle ma addio miliardi del Recovery. Quelli che usciranno dalle urne “li butteranno via o non li sapranno usare”. Proprio l’incubo che fa accapponare la pelle agli industriali, ai ceti produttivi, al Nord, ai governatori.

Ma chi vincerebbe elezioni d’inverno, stando ai sondaggi? Il centrodestra. Ecco perché l’intervista a tutto campo alla “Stampa” del numero due della Lega diventa il caso politico del giorno. Letta come un avviso ai naviganti. Che sono tanti, forse troppi, nel complesso scenario dell’unità nazionale. Ai moderati agli orfani del berlusconismo d’antan, ai riottosi al sovranismo. All’Europa. Ma un segnale (anche) a Salvini e Meloni, ai loro candidati, a quella linea lì, alla loro asse attuale e prospettica, alle sinergie per il voto sul Quirinale. E, ovviamente, ai numeri.

Accade nel giorno in cui Salvini si trova a fronteggiare la vicenda che coinvolge il suo ex spin doctor Luca Morisi, inventore della possente Bestia, indagato per cessione di stupefacenti. E sebbene Giorgetti smentisca nettamente - “Lo rispetto, è super bravo, è intelligentissimo – parecchi lo collocano in prima linea nelle dimissioni del social media manager. E il numero due entra per la prima volta in aperta rotta di collisione con il suo segretario, costretto a una difesa di rito dei due candidati del centrodestra nelle principali città, esposto a una vulnerabilità nei confronti di FdI, dove l’ira per l’”azzoppamento” di Michetti sfiora il livello di guardia. Meloni rompe il silenzio - che regna un po’ dappertutto – solo a sera: per lei conta l’impegno di Salvini e Berlusconi, il ministro non conosce la città. E’ chiaro che si tratta di una tregua, quanto fragile lo si capirà dopo il primo turno delle amministrative. Appena sarà chiaro il dato di lista. Ovvero, l’esito del braccio di ferro tra “Matteo” e “Giorgia”. E i rispettivi pesi - nonché la solidità della partnership – in vista del dopo Mattarella. Al cui bis la prima ha già detto no, e il secondo lo pensa. Sebbene la fuga in avanti faccia infuriare i salviniani anche su questo fronte: “Di questo tema non abbiamo ma discusso nel partito – sibila un big di via Bellerio – Ero rimasto alla candidatura di Berlusconi...”. E invece, ecco il nome (centrista) di Casini gettato nella mischia.

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Sia chiaro: Giorgetti non ha il profilo del kamikaze. “Se c’è bisogno, sa farsi concavo e convesso” ride un Dem di lunga navigazione. E’ da tempo il “solito sospetto”, al centro di veleni incrociati che gli attribuiscono tripli giochi. Non è così: “Il dualismo con Salvini è reale, e si riflette sul nostro partito – raccontano fonti di Forza Italia – Non da oggi, Giancarlo vuole spaccare e ridisegnare il centrodestra”. Magari diventare non il frontman – come si è schermito nell’intervista, non ne ha il carattere né la voglia – bensì il king maker di un centrodestra che verrà. A cui tanti guardano. Giorgetti “arruola” Calenda (che protesta) pensando ai voti di centrodestra che potrà intercettare nelle zone centrali della Capitale, Renzi risponde subito: “D’accordo con lui, la destra ha fatto di tutto per perdere le amministrative”. Il coordinatore azzurro Tajani, un po’ stizzito, invita il ministro a fare campagna nella sua Varese: “Non condivido il 90% di ciò che ha detto”. Tacciono i ministri in quota Forza Italia. Mentre si scaldano i cuori della pattuglia che fa capo a Toti. E i leghisti della prima ora, quelli che soto sotto rimpiangono Bossi e che coltivano un sogno: “Giancarlo si è mosso in modo intelligente per evitare il sorpasso di FdI. Ci sarà lo stesso? Ma un conto è l’abisso, un altro sono pochi punti di distanza. In quel caso puoi andare a cercare un papa straniero, come ha fatto il Pd”. Insomma, il ministro che è così in sintonia con Draghi da rinunciare all’intervento in Confindustria per non “suonare ripetitivo”, ha dato un colpo al cerchio e uno alla botte. Alla Meloni per (tentare di) ridimensionarne le ambizioni, a Salvini per ridurlo a più miti consigli. In un contesto politico che accelera, che rischia l’effetto maionese impazzita. “Che Draghi stia a Chigi o sul Colle il risultato non cambia – ragiona un esponente di governo – Si sta delineando il suo partito senza di lui”.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.

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