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Anche gli europeisti non credono alla riforma dell'Eurosistema..

Dopo il decollo della nuova Grosse Koalition tedesca (evento per la verità non sicurissimo, vedremo il risultato del referendum tra gli attivisti SPD – che sarà noto il 4 marzo, stesso giorno delle elezioni italiane…) si dovrebbe mettere in moto un processo di riforma della governance economica eurozonica.

Ufficiosamente, si afferma da tempo che la riforma dovrebbe seguire le linee di un documento predisposto da 14 economisti francesi e tedeschi, che collaborano con il CEPR (Center (Shanghai: 603098.SS - notizie) for Economic Policy Research).

La mia opinione, tuttavia, è che ancora una volta la proposta sia completamente fuori strada. E per una volta mi trovo in sintonia con commentatori decisamente pro-UE come Marcello Messori e Stefano Micossi. La loro posizione è ben illustrata da questo post (a questo link, il secondo in data 15.2.2018) di Wolfgang Munchau:

La crisi dell’Eurozona è stata prodotta dalla percezione del mercato che esisteva un rischio di ridenominazione – cioè che alcuni stati membri non sarebbero stati in grado di provvedere al servizio del proprio debito in euro e avrebbero quindi deciso di farlo in una moneta di nuova emissione. La loro (di Messori e Micossi) principale critica al documento CEPR è che non fa nulla per affrontare il rischio di ridenominazione, in effetti formula proposte che lo peggiorano. In merito all’unione bancaria, il documento CEPR prende spunto dall’idea tedesca di ridurre le quote di possesso di debito pubblico delle banche, che in una crisi possono agire da stabilizzatore. Lo stabilizzatore viene rimosso, accrescendo il potenziale di instabilità finanziaria. Il documento CEPR propone che l’ESM (il fondo salvastati) entri in processi di risoluzione bancaria o di assicurazione dei depositi solo quando le risorse nazionali sono esaurite, e con rigorose condizionalità di policy. Recepisce l’idea di insolvenze sovrane all’interno dell’Eurozona. E le regole fiscali continuano a rendere più difficile la stabilizzazione anticiclica. Messori e Micossi affermano quindi che il mercato non potrà mancare di accorgersi delle implicazioni di tutto ciò per la stabilità di banche e governi in vari paesi dell’Eurozona, e agirà di conseguenza. L’unico fattore di impedimento – che permette al documento CEPR di ignorare le implicazioni finanziarie destabilizzanti della sua proposta – è il “whatever it takes” di Mario Draghi, che potrebbe non proseguire oltre il 2019.

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Munchau, ricordo, è anch’egli un europeista, ma possiamo definirlo un europeista disilluso: vorrebbe che il processo di integrazione politica facesse passi in avanti, ma si rende conto che non sta accadendo – o non a condizioni che giustifichino di perseguirlo. C’è da riflettere ulteriormente sul suo commento finale:

Dal punto di vista italiano, il documento CEPR appare o una totale capitolazione francese alle richieste tedesche, oppure un allineamento della Francia alla Germania basato sul presupposto che il rischio di ridenominazione comunque per la Francia non vale. E in questo potrebbero avere ragione – sappiamo dalla caduta dello SME nel 1992 che la Bundesbank ha voluto intervenire sul mercato per proteggere la Francia, non l’Italia o il Regno Unito. Oggi la volontà tedesca di intervenire a favore dell’Italia appare casomai ancora inferiore. Gli economisti francesi giudicano che il problema italiano non si applichi al loro paese ? o si stanno illudendo che la Francia possa essere la Germania?

Fin qui Munchau. Ma c’è una domanda da porsi, ancora più rilevante per l’Italia in particolare, e per la stabilità del sistema in generale. Se è vero, come sospetta Munchau, che la futura leadership della BCE (Weidmann o chi per esso) lascerà cadere il “whatever it takes”, la fuoriuscita dell’Italia dall’Eurozona è un evento molto, ma molto più probabile di quanto i mercati credano oggi. E la data plausibile è fine 2019. Un futuro tutt’altro che distante.

Tirando le somme:

  1. il documento CEPR è una proposta che l’Italia non può neanche immaginare di prendere in considerazione, men che meno di considerare accettabile;

  2. la strada alternativa che l’Italia può proporre – ma anche percorrere autonomamente – è sempre la stessa: strumento fiscale a base nazionale in affiancamento all’euro;

  3. se questo sarà poi un assetto permanente dell’Italia nell’ambito dell’Eurozona, o lo scivolo verso l’Italexit, dipenderà essenzialmente da fattori politici. Ma è indispensabile essere pronti.

Autore: Marco Cattaneo Per ulteriori notizie, analisi, interviste, visita il sito di Trend Online