I governatori del Sud si lamentano del Pnrr perché il Pnrr non l'hanno letto
C’è un elemento ancora più disarmante nella protesta, già di per sé bizzarra, che alcuni presidenti delle Regioni del Sud hanno messo in piedi contro il Governo. Ma prima di parlare di questo elemento è bene partire dai malumori emersi giovedì, quando i governatori si sono ritrovati intorno a un tavolo per discutere di varie questioni legate al Recovery. A Mario Draghi viene rimproverato di aver sbagliato i conti (e qui che la questione diventa bizzarra, non tanto per la caratura del premier, ma anche solo per il fatto che il Recovery, insieme ai vaccini, è la ragione fondativa del suo governo e quindi la missione infallibile per definizione). Il governatore della Campania Vincenzo De Luca dice che ”è una cosa non vera” sostenere che il 40% delle risorse andrà al Mezzogiorno. I calcoli di altri suoi colleghi dicono che mancano 7 miliardi: invece di 89 miliardi ne arriveranno 82. E si arriva così all’elemento disarmante: la non conoscenza delle carte, la supremazia del modello Twitter, che tutto dice, meglio scrive, senza aver letto le norme. Pagina 40 del Piano nazionale di ripresa e resilienza: “Il Governo ha deciso di investire non meno del 40 per cento delle risorse territorializzabili del Pnrr (pari a circa 82 miliardi) nelle otto regioni del Mezzogiorno”.
Spingersi fino a pagina 40 è forse un’operazione ardua, ma basta fermarsi prima, all’introduzione firmata da Draghi. Pagina 4: “Il 40 per cento circa delle risorse territorializzabili del Piano sono destinate al Mezzogiorno, a
testimonianza dell’attenzione al tema del riequilibrio territoriale”. Da mesi, quindi, è noto a tutti (il Piano è pubblico e consultabile sul sito del Governo) che il 40% dei soldi al Sud va calcolato sulle risorse territorializzabili, cioè su quelle che andranno a finire nei territori. Non quindi, come sostiene la protesta di alcuni governatori, il 40% di 222,1 miliardi, che fa 89 miliardi, ma il 40% di 206 miliardi, che sono i soldi che arriveranno a Lamezia Terme invece che a Sondrio. Il 40% di 206 miliardi è 82 miliardi, proprio la cifra indicata nel testo del Pnrr (il circa citato da Draghi è tale perché il valore esatto è 82,40). A meno che - e qui l’elemento disarmante cresce in dimensioni - non si vogliano tirare dentro quei 16 miliardi di differenza tra 222,1 e 206 miliardi. Ma quelli sono soldi che servono per gli investimenti sui satelliti e per la digitalizzazione della Pubblica amministrazione centrale, ancora per l’hub del turismo e per la cybersicurezza: non hanno una specifica collocazione territoriale. E quindi non sono soldi tolti al Sud e dati al Nord semplicemente perché non sono risorse da inviare nei diversi territori.
Ma i governatori hanno da ridire anche sulla quota del 40% prevista dai bandi. Qui è utile aprire una breve parentesi. Il Recovery prevede investimenti diretti (come la realizzazione dell’Alta velocità), interventi ad assorbimento automatico (un esempio è il superbonus) e misure legate ai bandi, come gli asili nido. Il calcolo fatto dal Governo per dire che il 40% dei soldi del Pnrr andrà al Sud ha tenuto conto di tutte e tre queste tipologie. Ora i governatori ribelli dicono che la quota del 40% non è garantita all’interno dei bandi. Ma proprio per blindare questo criterio a luglio è arrivato un emendamento al decreto sulla governance e le semplificazioni del Pnrr. La modifica, entrata nel testo della legge approvata dal Parlamento, dice proprio che il 40% delle risorse deve andare al Sud.
Tra l’altro è la prima volta che una norma di legge vincola una quota così elevata di fondi europei a un determinato territorio, in questo caso le 8 Regioni del Mezzogiorno. Forse il punto della questione è qui. Il problema non sono i soldi, che ci sono e arriveranno, ma la prospettiva che guarda solo al lato economico della questione (tra l’altro in modo errato nella sostanza). Non al come spendere questi soldi. Eppure molte Regioni del Sud figurano in basso nella classifica della spesa dei fondi strutturali europei, quelli settennali e che hanno preceduto il Recovery. Il problema è articolato perché dentro c’è anche la questione, innegabile, di un impoverimento che al Sud è stato maggiore che al Nord in termini di personale che lavora nei Comuni così come negli uffici regionali e in quelli degli altri enti locali. Ma a parte il fatto che la buona spesa non può essere legata solo a una questione di quanti ci lavorano, il dato che marca uno scollamento tra l’accelerazione di Draghi, calibrata su una “chigizzazione” del Recovery, e gli enti locali è proprio il guardare alla quantità invece che alla qualità.
Valgono anche le ragioni contrarie e cioè che gli enti locali sono i soggetti attuatori del Recovery e quindi sono caricati di una responsabilità importante, accresciuta dal fatto che mentre i “vecchi” fondi europei non spesi potevano essere ripescati attraverso una negoziazione, i nuovi, quelli del Recovery, arriveranno a pacchetti e solo se si dimostrerà a Bruxelles che gli investimenti stanno andando avanti e non sono invece bloccati. Destinare il 40% dei soldi al Sud non è però solo una grande responsabilità per Regioni e Comuni: è anche un rischio per Draghi se le cose si metteranno male. Dietro la prospettiva ristretta e vetusta di quanti soldi si potranno gestire, c’è il tema del rapporto tra la testa e le braccia del Recovery. Più di un governatore ha fatto notare che alla prima riunione della cabina di regia sul Pnrr, dedicata all’istruzione e alla ricerca, mancava il presidente della Conferenza delle Regioni. Non siamo agli ultimi mesi del governo Conte 2, quando ogni decreto del Governo diventava ragione di litigi e discussioni infinite con le Regioni e i Comuni. Ma non siamo neppure a quella visione comune, da missione Italia, che è il sottotitolo del Recovery. Siamo a metà strada. Non a caso tutti i presidenti di Regione hanno manifestato apprezzamento per il riparto, gestito dal ministro per la Pubblica amministrazione Renato Brunetta, dei mille esperti che saranno inviati nelle Regioni per sbrogliare le procedure complesse. Non solo perché al Sud ne andranno parecchi (400 su 1.000), ma perché il lavoro tra la testa e le braccia è filato liscio.
Ovviamente era interesse anche degli enti locali che tutto procedesse speditamente per via della carenza di personale. Ma quando in mezzo ci si mettono i soldi le cose si complicano. Sempre giovedì, sempre i governatori riuniti tra di loro. Hanno parlato anche dei primi 880 milioni del piano Garanzia di occupabilità dei lavoratori scritto dal ministero del Lavoro. I soldi sono dentro a un decreto che riorganizza le politiche attive del lavoro, con l’obiettivo di reinserire tre milioni di persone nel mercato entro il 2025. La bozza del provvedimento, messo a punto da Andrea Orlando insieme al Tesoro, è lunga 55 pagine: obiettivi, azioni e ovviamente anche i soldi. La riforma delle politiche attive del lavoro è una delle 51 scadenze del Recovery che devono essere rispettate entro il 31 dicembre. Ma è attesa da tempo: già ai tempi del Conte 2 era stata pensata, insieme alla riforma degli ammortizzatori sociali, come una ciambella di salvataggio da gettare nel mercato del lavoro quando sarebbe terminato il blocco dei licenziamenti. A luglio lo stop per le grandi imprese è cessato, a fine ottobre anche le piccole e medie imprese potranno licenziare. Tra l’altro di disoccupati ce ne sono già parecchi e le politiche attive servono ovviamente anche per loro. Ma quando i governatori hanno passato in rassegna il testo del decreto, l’attenzione è caduta sulla tabella riportata a pagina 51, che Huffpost è in grado di pubblicare in esclusiva.
La tabella riporta la suddivisione degli 880 milioni tra tutte le Regioni. Il governatore del Veneto Luca Zaia ha chiesto di non considerare i percettori del reddito di cittadinanza (uno dei cinque profili dei destinatari delle politiche attive) come una categoria a sé, essendo già disoccupati e quindi assimilabili in un’altra categoria di beneficiari. Ma questo orientamento ha registrato la contrarietà di altri governatori. Alla Campania, ad esempio, andranno 124 milioni (il 14,11% del totale delle risorse) soprattutto perché nella Regione ci sono molti beneficiari del reddito di cittadinanza e infatti 26 dei 124 milioni saranno corrisposti proprio per questa ragione. Alla fine non ci si è messi d’accordo e il Governo dovrà impiegare almeno un’altra settimana per provare a trovare la quadra con le Regioni. Dopo l’approvazione del decreto interministeriale dovranno passare 90 giorni in tutto per rendere operative le nuove politiche del lavoro. Saremo già nel 2022. Poi c’è sempre la possibilità per Draghi di attivare i poteri sostitutivi. Anche questo c’è scritto nel Pnrr.
Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.