Grandi manovre sull’Iva
Il superamento delle clausole di salvaguardia è previsto dalla legge di bilancio. Ma il problema si riproporrà. Il prossimo parlamento dovrebbe perciò affrontare le problematiche legate all’Iva con un approccio sistemico. Così da ridurre e prevenire l’evasione.
Stop (parziale) alle clausole di salvaguardia
La legge di bilancio contiene il superamento delle clausole di salvaguardia previste per il 2018.
Il termine clausola di salvaguardia, usato per la prima volta nel 2011 dal governo Berlusconi, indica una norma che ha lo scopo di garantire il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica nel caso gli effetti complessivi delle altre misure non raggiungano gli esiti previsti entro una determinata scadenza. La clausola può basarsi sia su maggiori entrate, e quindi aumento di imposte, sia su riduzioni di spesa, come quelle lineari inserite proprio nella legge finanziaria per il 2011. Di (KSE: 003160.KS - notizie) fatto, tuttavia, negli ultimi anni le diverse clausole hanno previsto esclusivamente aumenti di aliquote dell’Iva e delle accise, che, periodicamente, i diversi governi hanno provveduto a disinnescare trovando forme alternative per raggiungere gli obiettivi di finanza pubblica, ovvero riformulando gli stessi. Come si verifica con questa legge di bilancio, che evita, per il 2018, aumenti dell’aliquota Iva ordinaria (attualmente al 22 per cento) e ridotta (oggi al 10 per cento) per complessivi 14,9 miliardi di euro, finanziati, sostanzialmente, con un aumento del disavanzo. Tuttavia, la sterilizzazione è solo parziale, per cui, dopo l’approvazione della legge di bilancio, rimarranno comunque per il 2019 gli incremento all’11,5 per cento dell’aliquota ridotta e al 24,2 per cento dell’aliquota ordinaria. Per evitarli serviranno quasi 13 miliardi.
Il problema è dunque solo rinviato al prossimo governo e alla prossima legislatura. La speranza è che venga affrontato con un approccio sistemico. Due sono i nodi: scelta delle priorità di intervento compatibili con il quadro di finanza pubblica e aumento dell’efficienza nella gestione dell’Iva.
Sul primo punto si fronteggiano due linee di ragionamento. La prima vorrebbe concentrare tutte le risorse su una riduzione generalizzata dell’Irpef finanziata con un aumento dell’Iva, oltre che con tagli alle prestazioni di welfare e alla spesa pubblica. È la proposta di flat tax formulata dall’Istituto Bruno Leoni e ampiamente discussa su lavoce.info.
La seconda preferisce ragionare su riduzioni dell’Irpef concentrate sui redditi medio-bassi (del tipo di quelli proposti da Fernando Di Nicola e Ruggero Paladini) e revisioni delle prestazioni di welfare attraverso un maggiore uso del test dei mezzi. In questo contesto, l’incremento delle aliquote Iva sarebbe probabilmente evitabile. Chi scrive preferisce la seconda ipotesi sia per ragioni di ordine generale (i livelli di elasticità del reddito dichiarato all’aliquota non suggeriscono come un’urgenza la riduzione delle aliquote Irpef sui redditi elevati) sia per ragioni più specificatamente legate all’Iva, il cui aumento avrebbe (secondo le stesse stime dei moltiplicatori riportate nella Nota di aggiornamento al Def 2017) conseguenze recessive sostanzialmente tali da annullare l’effetto espansivo derivante dalla riduzione dell’Irpef, oltre che un impatto regressivo sulla distribuzione del reddito disponibile.
Come risolvere le inefficienze dell’Iva
Tuttavia, il problema dell’inefficienza dell’Iva in Italia non può essere ignorato. È infatti vero che l’aliquota effettiva sui consumi, ossia il rapporto tra gettito ottenuto per ogni euro di ipotetica base imponibile, è in Italia storicamente più basso rispetto agli altri paesi europei. Secondo Taxation Trends, l’aliquota effettiva sui consumi in Italia è sì salita al 18,1 per cento nel 2016 dal 16,8 per cento del 2003, ma il divario rispetto agli altri paesi Ue è sostanzialmente rimasto uguale, pari a circa 2,5 punti percentuali in meno ed è legato soprattutto all’Iva. Esso (Euronext: ES.NX - notizie) dipende, a sua volta, da due componenti, il policy gap e il vat gap. Il policy gap misura, ignorando l’evasione, il gettito perso a causa delle esenzioni e dell’applicazione delle aliquote Iva diverse dall’ordinaria. Secondo i dati della Commissione europea, in Italia, escludendo le esenzioni che sono intrinseche alla natura stessa dell’imposta, il policy gap su cui si può agire (actionable policy gap) è di poco superiore a quello mediano europeo (16,7 per cento contro 13,4 per cento nel 2013). Il vat gap, che misura il gettito perso a causa dell’evasione, in Italia nel 2013 era invece più del doppio rispetto a quello mediano europeo (33,7 per cento contro 13,9 per cento). Malgrado i dati più recenti siano probabilmente grazie alle diverse misure adottate negli anni successivi al 2013 (split payment, reverse charge, comunicazione dati fatture), è evidente che il ridotto gettito dell’Iva in Italia è legato soprattutto all’alta evasione.
Aumentare le aliquote formali, da questo punto di vista, peggiorerebbe ulteriormente le cose. Ciò che è necessario fare, invece, è riorganizzare l’amministrazione finanziaria in modo che sia indotta a utilizzare i dati che sono già in suo possesso per prevenire (piuttosto che limitarsi a reprimere) l’evasione dell’Iva, innanzitutto agendo nella fase a monte del consumo finale, ovvero nelle transazioni business-to-business, in modo che non vengano occultate quelle di cui l’Agenzia ha evidenza. La recente riorganizzazione dell’Agenzia delle entrate, che crea per la prima volta nel nostro paese un settore per l’analisi dei big data con competenze statistiche e informatiche è un primo e importante passo di un cammino da compiere in fretta nella prossima legislatura. Anche perché, senza queste innovazioni organizzative, è difficile poter raggiungere gli obiettivi di 7,3 e di quasi 9 miliardi di riduzione del vat gap che sono già scritte nelle previsioni di finanza pubblica per il 2018 e per il 2019.
Di Alessandro Santoro
Autore: La Voce Per ulteriori notizie, analisi, interviste, visita il sito di Trend Online