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Green jobs: dal lavoro alla scuola una svolta per l’Italia

Numeri e proiezioni dicono che la green economy è la chiave del cambiamento. Intervista a Marco Gisotti

Pensiamo meno allo spread, e più alle occasioni reali con cui l’economia italiana potrebbe ripartire. Ed ecco che il domani si tinge di verde, inteso come il colore delle prospettive occupazionali connesse all’economia green che in Italia, nei settori tradizionali e maturi, punta alla riqualificazione. E che in ambiti nuovi e inesplorati debutta sempre all’insegna dell’ambiente e della sostenibilità. Non mancano i numeri per credere concretamente a questa possibilità, secondo quanto si legge nella Guida ai green jobs 2012 - Come l’ambiente sta cambiando il mondo del lavoro di Tessa Gelisio e Marco Gisotti (Edizioni Ambiente, 516 pagine, 16 euro).

Sotto le insegne della green economy hanno trovato posto, dal 2010 “tre imprese manifatturiere su 10 fra quelle piccole e medie”, nel “2011 questo numero è praticamente raddoppiato”. Nel settore dell’efficientamento, invece, “Confindustria immagina che il settore potrà generare un effetto cumulato nel decennio di un aumento della produzione diretta e indiretta a livello nazionale di quasi 240 miliardi di euro, la creazione di oltre 1,6 milioni di posti di lavoro, con un incremento del Pil medio dello 0,6% annuo”. 

Le prospettive sono concrete e spetta all’Italia decidere se voler guardare al futuro e vederlo green o continuare nella notte profonda dello scontento economico e dello stagnamento produttivo. Yahoo! Finanza ha intervistato Marco Gisotti, autore del libro, già divulgatore scientifico, tra i massimi esperti italiani di comunicazione ambientale a livello multimediale.

Scrivete che la green economy chiede un approccio globale ma non globalizzato . E’ un manifesto anche ideologico, nell’ottica in cui non bisogna esportare un modello unico su scala globale? O si riferisce più direttamente all’esigenza di produrre in loco le componenti senza demandare all’estero?
"Non è che l’economia classica fosse meno ideologica. Non esiste un modello unico a priori, ma quello che posso dire è che la strategia che individuano gli scienziati delle Nazioni Unite che hanno lavorato al Millennium Ecosystem Assessment - un documento di qualche anno fa che copre scenari fino al 2050 - vede come soluzione il cosiddetto mosaico adattativo. Non esiste una formula che vale per tutti, in principio per ragioni ecologiche: ogni territorio ha la sua specificità in termini di risorse e di risposte delle risorse naturali della terra a quell’ambiente. Il modello unico è stato un utopia del XX secolo. Ogni realtà ha bisogno della sua formula e dell’adattamento della stessa. Ciò che appare comune oggi è l’evoluzione convergente dei sistemi industriali verso una maggiore efficienza, un cambiamento che richiede nuove competenze e nuovi lavoratori".

Con il crescere delle normative per questi mercati resteranno in vita solo gli attori più credibili. Il riferimento va anche a quegli attori che hanno goduto di incentivi, come nel campo delle rinnovabili, e che forse non erano credibili?
"Gli incentivi non sono una forma maggiore di non credibilità. Sono un’opportunità per i governi e le istituzioni che li erogano se concessi in tempo e regolamentati in modo adeguato; tutti i mercati emergenti ne hanno bisogno. Non sono credibili quelle tecnologie e quei mercati molto maturi che continuano a goderne, come il trasporto su gomma, come il nucleare, il petrolio e moltissimi altri combustibili fossili".

Ritiene che ci siano mercati e settori in cui il green ha già raggiunto un livello di maturità completa?
"No, assolutamente. Nel campo delle rinnovabili, parliamo di un mercato che a detta di tutti dovrebbe già fare a meno degli incentivi, in un tempo ragionevole questa tecnologia sarà matura, ma parliamo di 2-3 anni. Pensiamo alla chimica verde o al settore dell’edilizia che è sempre stato un settore trainante dell’economia ed è all’anno zero. Tutti gli indicatori economici ci dicono che col green ci potrebbero essere margini enormi di sviluppo e di ripresa. Quei settori che oggi sono bio, ad alta efficienza energetica, che non producono rifiuti, come il settore vitivinicolo, spiccano in tutto il mondo per qualità di prodotto e per sostenibilità ambientale. Non direi che ci sia un settore dove abbiamo raggiunto la maturità. Ma forse è proprio lì che bisogna investire essere più che resistenti, resilienti alla crisi".



Lei scrive che con il business hi tech incentrato sul riciclo delle materie prime finirà l’epoca delle mafie sedute sulle montagne di monnezza. Non è un sillogismo troppo fiducioso?
"Lo dicono i numeri di un settore, quello del riciclaggio, economicamente in crescita da anni. E' vero che l’Italia soffre di problemi legati alla criminalità organizzata infiltrata in ogni settore, non solo quello dei rifiuti, anche nelle rinnovabili. Però è un evoluzione globale quella di vedere i rifiuti come risorse. Perfino la mafia e la criminalità hanno investito nelle rinnovabili perché hanno capito che potevano riciclare il denaro, anche con impianti paradossalmente a norma. Non si tratta di essere ecologisti ma furbi nel non buttare via le materie in un mondo in crisi sotto questo profilo".

Crede che i giovani punteranno sul green in ottica accademica e quindi lavorativa?
"Occorre una svolta generazionale delle classi politiche e dirigenziali, occorre qualcuno che punti nel sistema formativo e produttivo sui giovani spiegando loro quali sono le professioni e i settori su cui scommettere. Bisogna fare orientamento  fin dai primi anni del liceo se non delle medie. Il problema occupazionale incide sui ragazzi diplomati in un Paese dove però abbiamo gli istituti superiori professionali, strutture di altissimo perfezionamento da cui si esce per andare a lavorare. In Europa si punta sugli its, in Italia no".

Il green in tavola è un esempio di eccellenza italiana gastronomica. Ma non rischia di restringere la platea dei consumatori a causa dei costi?
"Pensiamo a Oscar Farinetti di Eataly,  che ha creato il supermercato della qualità. E’ vero che i prezzi non sono da discount ma trovi a un prezzo da supermercato un prodotto in cui il valore industriale, commerciale, qualitativo è molto più alto. Credo sia una strada molto intelligente che valorizza le piccole produzioni locali, quale migliore modo della tavola e del cibo per dire che la qualità ha un senso? Siamo stufi di mangiare formaggini inscatolati fatti con avanzi rancidi di parmigiano. Farinetti è un precursore, ce ne fossero tanti altri. Noi ci nutriamo solo di pessimi esempi. Cominciamo a raccontare i buoni esempi, dimostrando che si può fare, perché più aumentano i consumi, più si abbassano i costi. Se poi alcuni prodotti rimangono di lusso non dobbiamo lamentarci. A volte è questa la via che serve a tutelare anche alcune aree dal depauperamento: creare economia sul territorio senza stravolgere lo stesso a vantaggio del turismo di massa".