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Guerra dei chip e crisi dei container minacciano i nostri regali di Natale

child girl is sitting with her back in front of Christmas tree on Christmas Eve (Photo: evgenyatamanenko via Getty Images/iStockphoto)
child girl is sitting with her back in front of Christmas tree on Christmas Eve (Photo: evgenyatamanenko via Getty Images/iStockphoto)

Sotto l’albero di Natale, quest’anno, i bambini rischiano di non trovare il proprio giocattolo preferito. Quello che sembra un problema di poco conto in realtà nasconde una questione internazionale di tutto rilievo, in cui il problema dei cargo troppo a lungo fermi nei porti cinesi si interseca con la crisi dei microchip che si sta consumando a livello globale. Proprio per la penuria di chip, rischiamo di non trovare altri prodotti (o di dover lottare per accaparrarceli): dalla PlayStation 5 all’Xbox, fino agli smartphone. L’industria tecnologica e il commercio globale stanno cercando di correre ai ripari, ma è improbabile che si arrivi ad una soluzione in tempo per Natale.

“Comprate i giocattoli per Natale, ora”

“Se sapete cosa desiderino i vostri figli per Natale, comprateli i loro giocattoli ora e nascondeteli”: è questo il consiglio che viene dato sulla pagina dell’Observer del Guardian. Il giornale avverte che, a causa della crisi dei container e dei costi marittimi di trasporto, i regali di Natale rischiano di arrivare in ritardo. O di non arrivare affatto. “Non voglio essere allarmista, ma credo quest’anno sarà più difficile che mai accaparrarsi i giocattoli”, ha affermato Gary Grant, fondatore della The Entertainer, catena di negozi di giocattoli.

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Insomma, non sarà uno di quegli anni in cui si potrà ordinare all’ultimo minuto. “Non ci sarà mai un negozio di giocattoli senza giocattoli a Natale - aggiunge Grant - ma non è questo il punto. I bambini non vogliono un giocattolo qualsiasi, vogliono proprio ‘quel’ giocattolo. Può diventare complicato questo Natale garantire la disponibilità di tutti i giochi. I problemi che ci troviamo ad affrontare non si risolveranno in un batter d’occhio, sicuramente non prima di Natale. Il nodo dei trasporti andrà avanti ancora per un anno”.

Se è vero che il Regno Unito paga ancora lo scotto della Brexit (il commercio internazionale è crollato del 14,3% a/a nel marzo 2021, a causa della fine del periodo di transizione e l’imposizione di un terzo blocco nazionale), il Paese risente di problemi che colpiscono anche altri, come appunto quello della crisi dei container.

L'Ever Given, bloccata nel canale di Suez per circa una settimana (Photo: REMKO DE WAAL via ANP/AFP via Getty Images)
L'Ever Given, bloccata nel canale di Suez per circa una settimana (Photo: REMKO DE WAAL via ANP/AFP via Getty Images)

La crisi dei container

Ma quali sono le ragioni di questi possibili ritardi? Una delle cause riguarda la crisi dei container in Cina iniziata con la pandemia. Un esempio recente: a causa di un contagio da Covid, pochi giorni fa il Paese ha chiuso il terminal di Ningbo, terzo porto più grande al mondo. Il risultato? Ritardi e prezzi alle stelle per le spedizioni verso Usa e Ue. E non è la prima volta che il virus blocca i porti. La catena delle spedizioni è ingolfata da mesi. All’inizio di luglio, la crisi del trasporto merci ha portato a costare ben 7.000 dollari un viaggio tra la Cina e la costa occidentale americana: un aumento del triplo in un anno. E l’impennata dei prezzi ora sta colpendo in pieno l’Europa, con ormai più di 10.000 dollari di costo per un viaggio Cina-Europa, contro i 1.600 dollari dell’anno prima. Alan Murphy, capo della società di consulenza Sea Intelligence, ha spiegato all’AFP: “Siamo sostanzialmente a corto di navi e container vuoti, con questi ultimi che praticamente si trovano tutti nel posto sbagliato, cioè ovunque tranne che in Asia pronti per essere caricati”.

Tutto ha inizio con la crisi sanitaria, che ha sostanzialmente messo in pausa il mercato e paralizzato molte produzioni. Si è così venuta a creare una situazione che vedeva molto spesso le navi (vuote) da una parte del mondo e decine di migliaia di container dall’altra. Con la ripresa dell’economia, già a partire dalla seconda metà del 2020, i mercati occidentali hanno cominciato a sollecitare l’invio di materie prime e prodotti finiti ma le strutture commerciali - i porti in primis - non sono stati in grado di sostenere il riaccendersi della domanda spesso per l’indisponibilità di container o di navi da un capo o dall’altro della filiera.

I contagi e lo sbarco in Cina della variante Delta hanno aggravato il quadro, così come altre contingenze come il blocco dell’Ever Given nel canale di Suez. Uno dei focolai più virulenti è scoppiato nella regione del Guandong, uno dei cuori produttivi cinesi in cui è compreso anche il porto commerciale di Yantian. Le restrizioni sanitarie - questa volta in presenza di una ripresa della domanda mondiale - hanno nuovamente “strozzato” le vie commerciali. Proprio sulle banchine di Yantian (che nel 2020 avevano movimentato 13,3 milioni di container) si sono in tre settimane accumulati 357.000 cassoni. In breve, la domanda ha superato la disponibilità di mezzi per il trasporto delle merci. La situazione potrebbe durare fino al 2022 inoltrato.

Playstation, Xbox e altri prodotti che rischiamo di non trovare

Se avete cercato, non senza difficoltà, una PlayStation 5 non siete gli unici. Gli stock messi a disposizione periodicamente dagli store ufficiali si esauriscono in pochi minuti, spingendo molti utenti a rivolgersi a rivenditori privati con prezzi esagerati. C’è difficoltà a reperire il prodotto, come pure Xbox Series X e schede grafiche per PC di fascia alta come Nvidia e AMD. La situazione potrebbe peggiorare in vista del Natale, quando la richiesta sarà più elevata. Ma non solo. I prezzi di laptop e tv potrebbero aumentare, così come potranno aumentare i ritardi negli ordini di smartphone e tablet.

Secondo un’analisi di Strategy Analytics, in media, i prezzi degli smartphone sono cresciuti del 5% tra aprile e giugno. Come quelli di televisioni, computer e accessori. Il Wall Street Journal segnala che HP ha aumentato i prezzi delle stampanti di più del 20% nel corso di un anno. La cinese Xiaomi ha invece accumulato ritardi nella consegna del nuovo device in India. Sony ha avvertito gli utenti a maggio che ci saranno problemi di reperibilità di PlayStation 5 almeno fino al 2022.

Rischia anche il settore degli elettrodomestici. Il presidente di Whirpool in Cina, per esempio, ha detto a Reuters che a marzo l’azienda — che è statunitense e produce diversi tipi di elettrodomestici — è riuscita a soddisfare soltanto il 90 per cento della domanda. Robam, un marchio cinese poco noto in Occidente ma piuttosto diffuso in Asia, ha dovuto ritardare la messa in commercio di nuovi prodotti.

Ma a cosa si devono i prezzi alle stelle e i ritardi? Tutto è dovuto alla carenza di chip rispetto alla domanda crescente del pubblico.

La guerra dei chip

La penuria di chip rischia di minare la ripresa economica nel post pandemia di molti Paesi. Impiegati negli smartphone, nei pc, tablet e laptop, negli elettrodomestici, nell’industria della difesa, i chip sono componenti imprescindibili. Sono presenti anche nelle automobili, e sempre in quantità maggiori di pari passo con lo sviluppo di veicoli ibridi e full electric.

Tra le cause di quello che gli anglosassoni chiamano “chip crunch” c’è proprio la pandemia. Nel 2020 le persone sono state costrette a restare a casa per contenere i rischi di contagio e come conseguenza hanno avviato l’acquisto in massa di dispositivi elettronici. Computer per lo smart working e la didattica a distanza, ma anche consolle e altri oggetti di svago. Tutti accomunati dalla presenza di chip, elementi imprescindibili per il funzionamento di qualsiasi gingillo tecnologico. Questo aumento della domanda registrato lo scorso anno non era stato previsto dalle aziende produttrici, che anzi avevano basato le proprie previsioni su una riduzione della domanda. La chiusura di alcune fabbriche per rischi sanitari ha contribuito ulteriormente alla crisi. Un chip non si può sostituire, non ci si può arrangiare altrimenti e così uno smartphone non viene consegnato, un’auto resta ferma negli impianti di produzione.

L’industria automobilistica americana è stata stravolta dalla carenza di chip. Qualche numero: General Motors ha già chiuso tre impianti in America e dimezzato la produzione di due impianti in Corea; Ford ha tagliato il 20% della produzione nel primo trimestre, riducendo a un solo turno di 8 ore la produzione di uno stabilimento di Detroit, per una potenziale perdita di circa un miliardo. Secondo Moody’s Investor Service la carenza di semiconduttori ridurrà gli utili di General Motors e Ford di circa un terzo quest’anno.

Il forte accentramento della produzione e le crescenti tensioni tra Usa e Cina sono altre due componenti da tenere in considerazione quando si esamina la questione. Le fabbriche nel mondo sono molto poche, e quelle in grado di produrre i microchip più sofisticati sono soltanto due: TSMC a Taiwan e Samsung in Corea del Sud. Gli Stati Uniti ospitano i più grandi venditori mondiali di microchip al mondo come Intel, Qualcomm, Broadcom, Micron Technology, Nvidia, Amd, tra i primi nella progettazione di dispositivi e di software (fabless), ma non nella fabbricazione materiale, non dispongono cioè di fonderie (foundry). Ma la più grande fonderia al mondo è quella di Tsmc di Taiwan.

Ci sono stati poi alcuni problemi legati alle circostanze, come un incendio che nell’ottobre del 2020 ha distrutto una fabbrica di microchip in Giappone e la tempesta di neve che ha colpito il Texas quest’anno bloccando per diverse settimane due fabbriche nello stato americano. Il risultato è stato che a bloccarsi non è stato solo il settore dell’automotive, ma anche quello degli smartphone, degli elettrodomestici, dei prodotti tecnologici più in generale.

I governi stanno cercando di trovare soluzioni: il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, per esempio, alla fine di febbraio ha firmato un ordine esecutivo che prevede un investimento di 37 miliardi di dollari nel settore dei microchip e una revisione completa della catena delle forniture, da fare entro 100 giorni, per trovare e risolvere le eventuali inefficienze. L’Unione Europea ha promesso nuovi investimenti, mentre in Cina l’industria dei microchip è sussidiata e sostenuta già da anni, anche per questioni di indipendenza tecnologica.

Anche le aziende produttrici si sono mosse: Intel ha annunciato un investimento di 20 miliardi di dollari, destinato ad aumentare, per la realizzazione di nuove fabbriche produttive negli Stati Uniti e in Europa; TSMC, l’azienda taiwanese che è di gran lunga il più grande produttore di microchip al mondo, ha annunciato un investimento da 100 miliardi di dollari in tre anni per aumentare la sua capacità produttiva.

Nessuna di queste soluzioni è però attuabile a breve: la costruzione di una fabbrica di produzione di microchip richiede non soltanto investimenti ingenti ma anche molto tempo, ed espandere la produzione di fabbriche già esistenti è difficile, perché la produzione dei microchip, soprattutto di quelli più sofisticati, è estremamente complessa e richiede enormi infrastrutture e un know-how notevole.

Anche Apple e le Big tech rischiano
Nessuno è immune alla crisi dei microchip. Neanche le Big Tech come Apple, Tesla e Microsoft. Foxconn, la più grande fabbrica al mondo di smartphone, tablet e altri apparecchi tecnologici, che produce per conto di Apple, Samsung, Microsoft, ha fatto sapere che quest’anno la produzione potrebbe ridursi anche del 10 per cento, a causa della carenza di microchip. Soltanto a febbraio, l’amministratore delegato di Foxconn aveva detto di non essere preoccupato, perché la crisi avrebbe avuto un impatto “limitato” sul suo settore. Poche settimane dopo ha dovuto ricredersi.

Con l’uscita del nuovo iPhone in autunno, rischia anche Apple. Lo scorso trimestre, l’azienda ha detto agli investitori che la carenza di chip avrebbe potuto frenare le vendite da 3 a 4 miliardi di dollari. Tim Cook ha tentato di tranquillizzare i mercati affermando che “Apple paga alcune carenze per via di una domanda così grande e oltre le aspettative, che sarà quasi impossibile riuscire a ottenere tutti i componenti necessari in tempo utile per soddisfarla” e che l’azienda “farà tutto il possibile per mitigare qualsiasi circostanza sarà chiamata ad affrontare”. Come spiega Ars Technica, tali mitigazioni consisteranno probabilmente nel razionamento dei chip, fornendo assoluta priorità ai prodotti di punta, come ad esempio il prossimo iPhone 13. A farne le spese saranno quasi certamente i dispositivi meno popolari, o meno recenti, come i Mac e gli iPhone delle generazioni precedenti. Anche se avrebbe senso dare la priorità ai dispositivi più popolari per garantire lo stock maggiore possibile, sacrificare i dispositivi più convenienti potrebbe ritorcersi contro l’immagine dell’azienda. Potrebbe non essere una bella sorpresa per i clienti che pensavano di acquistare un iPad mini o un iPhone SE (2020), scoprire che Apple li sta spingendo ad acquistare un modello più costoso eliminando le opzioni più economiche dal suo listino. Foxconn è anche un fornitore di Google, Microsoft e di altre Big Tech internazionali, che, proprio come Apple, potrebbero quindi risentire di questa crisi nei prossimi mesi.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.