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"Il brand è tutto. Alitalia ha forte valore emotivo. Ita non può farne a meno"

ROME, ITALY - 2021/07/06: Alitalia, Airbus A320 seen landing at Rome Fiumicino airport. (Photo by Fabrizio Gandolfo/SOPA Images/LightRocket via Getty Images) (Photo: SOPA Images via Getty Images)
ROME, ITALY - 2021/07/06: Alitalia, Airbus A320 seen landing at Rome Fiumicino airport. (Photo by Fabrizio Gandolfo/SOPA Images/LightRocket via Getty Images) (Photo: SOPA Images via Getty Images)

“Innanzitutto mi lasci fare una precisazione perché ho letto diverse ricostruzioni sbagliate: il marchio Alitalia è nato nel 1969, a bordo di un battello ancorato al quinto molo del porto di San Francisco dove Walter Landor aveva la sede della sua società di brand design”. Se Antonio Romano, la mente e la matita di più di 500 brand identity - dal quadrato rosso della Cgil alla farfalla della Rai - è ossessionato dai particolari è perché “il brand non è la ragione sociale, ma un insieme di significati razionali, ma più spesso emotivi”. Non ama essere definito un brand designer, ma - dice in un’intervista a Huffpost - “non le voglio rubare tre ore per annoiarla sul perché preferisco la dicitura designer delle relazioni”. La spiegazione non arriva, ma è facilmente intuibile. E soprattutto utile per capire se e come lo storico marchio di Alitalia, messo in vendita a un prezzo base di 290 milioni, può risultare determinante per la partenza di Ita, la nuova compagnia aerea che comincerà a volare dal 15 ottobre.

Ita parteciperà alla gara per comprare il marchio Alitalia, ma non vuole spendere troppi soldi. Al di là dell’aspetto economico, è un vantaggio o uno svantaggio acquisire il marchio considerando che Alitalia è una storia fallimentare?

Alitalia è una storia di disastri recenti, ma per gli italiani, soprattutto quelli non giovanissimi, è uno dei simboli di questo Paese. Ha un valore emotivo molto forte e dato che il brand non è la ragione sociale, ma un insieme di significati spesso emotivi, per Ita sarebbe assolutamente un vantaggio riuscire ad acquisire il marchio di Alitalia.

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Perché?

Ita è una startup, con tutta una serie di limitazioni strutturali che già rendono difficile il debutto. Poter contare su un marchio la cui notorietà è globale può dare una spinta importante. Il brand è un codice, è tutto ciò che non hai bisogno di spiegare: se questo brand ha una forza incredibile, allora si toglie un elemento di incertezza. Questo non significa che Ita non dovrà fare anche molto altro per trovare una strada inedita necessaria per raccontarsi e legittimarsi. Un conto è essere Lufthansa o Air France, che ad esempio si regge sul “tu es français”, un altro è essere una realtà nuova, che nasce in una condizione già limitata, e che deve appoggiarsi su elementi capaci di generare un senso di empatia.

Antonio Romano è considerato il papà di molti marchi italiani. Tra le creazioni degli studi che ha diretto figurano il quadrato rosso della Cgil, la farfalla della Rai, lo scudetto-coppa del Coni, la torcia olimpica dei Giochi del 2004, ma a lui fanno riferimento anche operazioni di rebranding come il cane a sei zampe dell’Eni, l’aquila di Confindustria, il logo della Sapienza, il brand delle Treccani. Di lui dice: “Ho aperto il mio primo studio a 23 anni, quando ancora studiavo Architettura alla Sapienza: ho scelto di lavorare anche se non ero laureato perché avevo paura che papà mi imponesse di tornare a casa in Salento”.

Qual è il valore aggiunto del marchio Alitalia?

Il marchio Alitalia, che fu ideato dalla Landor di San Francisco nel 1969, fu riconosciuto da subito come rivoluzionario. Basta pensare che dopo l’ideazione di quel marchio, Landor divenne l’interlocutore di tutte le principali compagnie aree del mondo. Tutte volevano imitare Alitalia e lo fecero, non solo nel settore aereo. Io allora ero un bambino, ma ricordo che i negozi di elettrodomestici Radio Vittoria avevano un marchio con la R a forma di asta verticale, con dentro un triangolo rosso: sembrava proprio il marchio Alitalia. Era un marchio con una semplicità fortemente impattante.

In che modo quel marchio ha generato un senso di identità e di affezione?

Innanzitutto perché quel segno rimane ancora oggi legato all’idea del volo, che per tutti è la dimensione del sogno. Non dobbiamo dimenticare che quel marchio servì nel 1969 a fare un’operazione di rebranding che doveva dare rappresentanza al fatto che Alitalia si era liberata dei turboelica per volare solo con i jet. Era una realtà di avanguardia e quella realtà creò un processo di lavoro inedito, realizzando un progetto che rimane rivoluzionario.

Guardiamo il marchio da vicino. La A stilizzata tricolore che riprendeva l’impennaggio e la scritta Alitalia. Cosa c’è di rivoluzionario in questa scelta?

Il triangolo si rifà alla coccarda tricolore che c’è sugli aerei militari. Fu di fatto trasformata in un triangolo. Se ipoteticamente si prende la coccarda, la si tira da un punto e la si taglia lungo il diametro viene fuori una sorta di A di Alitalia. Il marchio è di forte impatto ed è diventato un simbolo paragonabile alla Nazionale italiano di calcio. Noi italiani non siamo apparentemente nazionalisti come sono i francesi, ma abbiamo dei momenti in cui l’italianità diventa qualcosa di non contenibile. Pensiamo alle vittorie della Nazionale o delle Ferrari: in quei momenti ci riappropriamo del nostro patrimonio identitario. Alitalia fa parte di questa collezione.

Torniamo alla gara per il marchio. Cosa rischia Ita se non riesce ad aggiudicarselo?

Ovviamente dovrà fare tutte le livree nuove, ma il problema non è solo la verniciatura degli aerei: bisognerà mettere mano alle postazioni a terra negli aeroporti, al materiale sia cartaceo che in termini di interfaccia digitale. Senza il marchio di Alitalia dovrebbe spiegare tutto da zero. Il brand è tutto, le faccio un esempio.

Prego.

Ibm significa International business machine. Se ricostruiamo la sua storia scopriamo che ha cambiato mestiere un sacco di volte, ma Ibm si è sempre guardata bene dal modificare il brand perché, con grande anticipo, ha capito che il brand precede il business. In America per tanto tempo è stato di moda il detto che nessun manager sarà mai licenziato per aver scelto Ibm.

Lei ha ideato numerosissimi marchi, immagino legati ognuno alla storia dell’azienda o al concetto da rappresentare. Quello di Alitalia, ci diceva, è forte. Perché al netto di qualche ritocco resiste da 52 anni?

Noi oggi viviamo in un mondo in cui ci sono almeno, e la valutazione è sottostimata, 40 milioni di marchi, a cui vanno aggiunti quelli in sonno come Twa o Banca commerciale, che sono usciti di scena ma le cui registrazioni sono pagate da qualcuno per impedire che qualcuno se ne appropri a brevetto scaduto. Il problema è trovare elementi identificativi, unicità e irripetibilità. Il tema è poter godere di un’adeguata notorietà, trovare i significati positivi che a vario titolo rendono empatico quel brand rispetto alla platea del pubblico.

Che dinamiche sta assumendo questo universo?

Dal 2007 in poi si è aggiunto il moltiplicatore digitale. Come dice giustamente Baricco abbiamo cambiato tutti la postura, il numero dei messaggi si è incrementato visto che i cellulari sono diventati una periferia di memoria. Se guardiamo al brand si è generato un ulteriore problema in termini di contatto. La logica è: contatto, visibilità, farsi vedere e rivedere ancora finché divento riconoscibile. Solo attraverso una riconoscibilità genero riconoscimento. Quello del brand è un mondo che sta cambiando a una velocità incredibile.

Proviamo a individuarne alcune caratteristiche.

L′11 settembre globale della pandemia ha fatto da acceleratore a fenomeni che esistevano già da tempo, ma non ancora sanciti e definitivi. Il primo salto nella nuova dimensione c’era stato già nel 2007, con l’avvento dell’iPhone: il Covid ha reso strutturale la linea di demarcazione tra il prima e il dopo. Prima il logo design risponde a delle regole basate su un mondo analogico, industriale. Oggi il digitale è logorato perché fondamentalmente il senso del segno identificativo o ce l’hai ed è già forte o forse non ti conviene nemmeno immaginare uno. Ovviamente estremizzo, ma la direzione è segnata. Un marchio come Yves Saint Laurent l’ha capito da tempo.

In che senso?

Yves Saint Laurent aveva un monogramma tra i più belli della moda. Dico aveva perché è vero che è ancora presente, ma svolge un’azione residuale, come elemento di decorazione di scarpe, borse e cinture o come stampa sui tessuti invece che all’ingresso dei negozi. Ma non è più nella campagna di comunicazione, dove si è ristretto a Saint Laurent, scritto con un carattere anonimo. Questo esempio dà la misura del cambiamento avvenuto: la superficie del monitor dello smartphone è limitata dal punto di vista dimensionale e per questo si sceglie una segnaletica semplice e non un decoro che può generare problemi.

Hanno scelto tutti questa strada?

Le modalità possono cambiare. Renault ha scarnificato il segno riportandolo alla storica losanga che caratterizzava il marchio nei primi anni Sessanta. La direzione è quella della scarnificazione totale. Ogni elemento deve essere ripensato, non banalmente, attraverso un’interpretazione dello stile del marchio rispetto alle caratteristiche richieste da quel tipo di brand.

Insomma il marchio di Alitalia dobbiamo tenercelo stretto.

Quel marchio ha dentro tante altre cose di cui non abbiamo ancora parlato.

Facciamolo.

Dà volto a un’Italia che è tra le principali destinazioni al mondo. Non è vero che l’Italia piace per il made in Italy. Quello che piace è l’Italia behaviour, il nostro comportamento, cioè come viviamo. L’italianità è il lifestyle, non a caso nella moda, nel food e nel design in senso stretto siamo un punto di riferimento mondiale anche oggi. Ora ha capito perché mi piace di più l’espressione design delle relazioni?

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.