Il Consiglio dei ministri è il nuovo Parlamento
L’eccezionalità di una legge di bilancio votata dal Senato in una sola seduta fiume, a dieci giorni dall’esercizio provvisorio, non si esaurisce nell’affanno della rincorsa che ogni anno caratterizza il passaggio parlamentare. Le maratone in commissione Bilancio esistono da sempre e da sempre ci sono gli emendamenti surreali, che il gergo dei lavori definisce marchette. E la stessa considerazione vale per le sedute sconvocate di continuo e per la veglia in attesa della bollinatura della Ragioneria generale dello Stato. Insomma c’è un protocollo che tiene dentro le regole e chi queste regole le maneggia, cioè i parlamentari, a loro volta espressione di volontà politiche differenti. Il carattere nuovo della manovra 2021 è rappresentato dalle modalità e dall’intensità della scollatura, anch’essa non inedita, tra il Parlamento e il Governo.
Insomma qualcosa si è rotto o forse non è mai maturato se si considera che su un altro provvedimento cruciale - il Recovery - le Camere si sono ritrovate a ratificare invece che a partecipare al processo decisionale. Nello scontento, ma anche con un certo sollievo nel pensare che c’è chi può fare tutto bene, anzi pure meglio. A patto però di vedersi riconosciuti margini minimi, che tirano dentro la possibilità di spendere qualche soldo.
La conversione in legge della manovra è fuori discussione. E il grande patto politico-istituzionale tra il Governo e il Parlamento non verrà meno neppure questa volta. D’altronde nessuno si sognerebbe di mettere in pericolo 30 miliardi che renderanno le buste paga più pesanti e le bollette di luce e gas più leggere, aiutando anche le imprese, gli ospedali, la scuola e i lavoratori in crisi. Ma tutto quello che è girato intorno alla riunione fiume di 14 ore della commissione Bilancio del Senato dice che il peso del Parlamento nella produzione legislativa si è ulteriormente ridimensionato. La volontà dell’esecutivo, invece, si è accresciuta. Ora è fuori discussione che sia il Governo a dover indirizzare un provvedimento strategico come è quello che fissa il dettaglio delle previsioni di entrata e di spesa. La partita la guidano da sempre palazzo Chigi e il Tesoro, ma i paletti che Mario Draghi ha messo su tasse, pensioni e bollette, non possono essere utilizzati come alibi per sottrarre il Parlamento alle sue responsabilità.
La strozzatura dall’alto c’è stata, come avvenuto anche con Berlusconi o con Monti, invece che con Renzi. Il ricorso ossessivo alla decretazione d’urgenza, anche quando l’urgenza non c’è, unito alla raffica di questioni di fiducia per blindare il passaggio in Parlamento, è un tema che arriva da lontano. E al quale anche Draghi non si è potuto sottrarre, in questo “giustificato” dall’emergenza Covid che accresce il ruolo di palazzo Chigi e toglie terreno alla plasmatura politica del Parlamento.
Ma durante la discussione sulla manovra è mancata anche la volontà dei parlamentari di farsi promotori di un dibattito politico alto, dove alto si riferisce alle grandi questioni irrisolte del Paese, a iniziare dal lavoro. Alla fine i gruppi sono stati al gioco del premier, che a sua volta ha lasciato loro in dote un tesoretto da 600 milioni. I gruppi, non i partiti. La differenza è tutt’altro che marginale e non si può archiviare con la considerazione che chi siede in Parlamento è espressione di un partito. La discussione sulle tasse si è fatta al Tesoro, sì con i responsabili economici dei partiti di maggioranza, ma non si è fatta al Senato né tantomeno alla Camera. Le decisioni più importanti sulla manovra sono arrivate durante le riunioni della cabina di regia tra Draghi e i capi partito.
Al netto dei margini strettissimi di mediazione offerti dal premier, a partire dalle pensioni, i contenuti della legge di bilancio sono stati fissati dentro il perimetro del Consiglio dei ministri, diventato una sorta di nuovo Parlamento. Quantomeno intorno al tavolo di palazzo Chigi è ammessa una discussione di merito sulle scelte che contano e la possibilità di far valere le proprie ragioni. D’altronde lo stesso Draghi sa benissimo che la maggioranza a sostegno del suo governo è fatta di sei forze politiche e che il fronte trasversale può essere cemento, ma anche sabbie mobili che vanno ricondotte a un substrato comune di solidità.
Come l’incastro sulla manovra è fallito lo spiegano i fatti. Lo dicono le riformulazioni del Tesoro agli emendamenti dei gruppi che sono arrivate il 20 dicembre perché intanto gli uffici della Ragioneria erano impegnati a dare il parere alle modifiche al decreto Recovery, all’esame della Camera. Anche il governo Draghi ha fatto fatica, e parecchia, nel gestire la simultaneità di due partite importanti. Quando, nella notte, sono andati in scena i bilaterali tra i gruppi e il Governo, tutti hanno capito che la scollatura era stata squadernata. I senatori, a turno, nella sala dell’esecutivo a chiedere il ripescaggio di qualche emendamento stracciato dalla Ragioneria. I tre sottosegretari all’Economia a spiegare, a tenere in equilibrio le richieste, i conti e l’orologio che imponeva di stringere i tempi visto il grande ritardo accumulato.
E sul versante opposto sono i 35 giorni di giacenza della manovra in commissione Bilancio a spiegare l’atteggiamento pigro dei gruppi e l’incapacità di autogestire per tempo il gruzzoletto a disposizione. Forse quel tempo poteva essere utilizzato per una discussione, seria e approfondita, su tutto quello che non andava nella manovra o per migliorare quello che girava storto. Qualcosa si è fatto, come chiedere più soldi per alcune misure importanti o anticipare la pensione per i lavoratori edili. Ma quando si sono mandate avanti le micro-misure, i settemila euro per esentare dal pedaggio autostradale i vigili del fuoco della Valle D’Aosta, allora è rispuntato il vecchio vizio. Anch’esso eredità del passato e tollerato da Draghi. Tanto la faccia ce l’hanno messa i senatori, in questo sì riconosciuti come custodi del potere di fare le leggi.
Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.