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Il Reddito di Draghi arriva dove i 5 Stelle non sono arrivati

ROME, ITALY - FEBRUARY 04: Minister of Labour Luigi di Maio  and Premier Giuseppe Conte present the website and the credit card of the Income of Citizenship (Reddito di Cittadinanza in italian), on February 04, 2019 in Rome, Italy. (Photo by Simona Granati - Corbis/Getty Images,) (Photo: Simona Granati - Corbis via Getty Images)
ROME, ITALY - FEBRUARY 04: Minister of Labour Luigi di Maio and Premier Giuseppe Conte present the website and the credit card of the Income of Citizenship (Reddito di Cittadinanza in italian), on February 04, 2019 in Rome, Italy. (Photo by Simona Granati - Corbis/Getty Images,) (Photo: Simona Granati - Corbis via Getty Images)

“Le agenzie per il lavoro possono svolgere attività di mediazione tra domanda e offerta per i beneficiari del Rdc”. Sono solo due righe, inserite nella legge di bilancio, ma sono due righe che introducono un elemento di rottura nella ricerca di un lavoro da parte di chi ha il reddito di cittadinanza. La norma dice che un’offerta si potrà cercare anche nelle filiali delle agenzie private, non solo nei centri pubblici per l’impiego. Anche, il che significa che la rete pubblica, costituita da 553 sportelli, non scompare, anzi viene pure rifinanziata. E non è neanche una questione di mettere il privato in contrapposizione al pubblico, dando per scontato che il primo sia sinonimo di qualità e il secondo di disservizio. Le due righe rappresentano il tentativo di sostanziare il reddito di cittadinanza della dicitura riportata nella legge che l’ha istituito: “Una misura di politica attiva del lavoro”. Da marzo del 2019, quando il reddito è entrato in vigore, questa dicitura è rimasta sulla carta.

Se il tentativo del governo Draghi raggiungerà il suo obiettivo lo diranno i numeri delle offerte di lavoro, ma resta il dato della volontà di smuovere un sistema che è fermo. Lo si può chiamare in mille modi: i più arditi tesserano le lodi del privato che sa gestire meglio pratiche e persone, i più pessimisti diranno che non cambierà nulla perché tanto il problema è alla base e cioè che il lavoro in Italia è poco e poco pagato, non tenendo in considerazione però che la questione non è solo quantitativa, ma anche qualitativa e i lavoratori che non si trovano sono un elemento che invita quantomeno a rigettare le letture apocalittiche di un mercato del lavoro che cambia perché tutto intorno sta cambiando.

Ma restiamo al tentativo. Innanzitutto ci si muove, si fa qualcosa, il che è una lezione ai 5 stelle che hanno tenuto il reddito sotto una campana di vetro, spingendo, e giustamente, sulla necessità del sussidio, soprattutto durante la pandemia, ma lasciando la questione della ricerca di un lavoro al caso. In quasi tre anni si è parlato solo di Mimmo Parisi e della gestione infelice dell’Anpal, l’Agenzia che fa da cervello al sistema dei centri per l’impiego. Si sono invocate le politiche attive per il lavoro senza però stanziare risorse degne di questo nome e soprattutto non chiedendosi cosa fosse necessario, senza interrogarsi sulla necessità di avanzare rispetto a una formazione tarata sui corsi per il pc o l’inglese. Mentre gli altri Paesi europei si dotavano di un’agenzia unica per individuare un modello di funzionamento dei diversi servizi su scala nazionale, insomma una testa unica di progettazione, ma anche di rilascio di un modello univoco per i servizi, in Italia si è scelto di fare altro. E cioè di lasciare a qualsiasi azienda di servizi la possibilità di organizzarsi da sola, sfuggendo alla verifica dell’efficienza del modello.

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È mancata la capacità di entrare dentro ai centri per l’impiego, di capire cosa non funziona. Si è preferito - scelta dei grillini - suonare la gran cassa delle assunzioni dei navigator, del pubblico che assume e dà una possibilità a tutti, salvo poi affidarli a un sistema già fallato. La decisione del governo di non rinnovare i contratti degli oltre 2.600 navigator prova a chiudere anche l’illusione che sia solo la consistenza della rete a determinare la capacità di essere tale, cioè assolvere al suo compito primario di mettere in contatto un’azienda che cerca un lavoratore con un beneficiario del reddito di cittadinanza. È un’altra sfaccettatura importante del tentativo. E poi ci sono i numeri. Chi prende il reddito ed è obbligato, perché sussistono le condizioni di occupabilità, a firmare il Patto per il lavoro dovrebbe avere la strada spianata verso una nuova occupazione. I dati del Comitato scientifico istituito al ministero del Lavoro dicono il contrario: al 30 settembre, su 1 milione e 109mila solo poco più di 420mila, pari al 37,9% del totale, sono stati presi in carico dai servizi per l’impiego. Un bel pezzo è stato lasciato per strada perché solo 92mila dei 420mila beneficiari del reddito che sono entrati nel circuito dei centri per l’impiego hanno svolto una qualche attività di politica attiva. Se poi si considera che 89mila di questi 92mila hanno fatto solo orientamenti, mentre solo circa quattromila un’attività di formazione, ecco che si spiega benissimo il fallimento del sistema.

Poi c’è anche l’altro lato della questione e cioè che a volte il beneficiario occupabile rifiuta le offerte di lavoro e ritiene più conveniente non perdere il sussidio. Le nuove misure riducono questo spazio: stop al reddito se non ci si recherà almeno una volta al mese al centro per l’impiego per cercare un lavoro. Ma anche blocco del sussidio se si dice no alla seconda offerta (oggi decade dopo il rifiuto della terza) e taglio progressivo, di cinque euro al mese, dopo il rifiuto alla prima proposta. Le offerte dovranno essere sempre congrue, ma i paletti sono più stringenti: è congrua se il lavoro dista 80 chilometri dalla residenza o se ci si arriva in 100 minuti con i mezzi pubblici, addirittura i riferimenti dei chilometri e del tempo di viaggio saltano dalla seconda offerta. Insomma sarà più difficile respingere un’offerta di lavoro. Solo così il reddito di cittadinanza può diventare una politica attiva, contribuendo a tirare il tema del sussidio fuori dal dibattito ideologico. Non che serva una controprova, ma quantomeno una prova. Intanto si parte dal tentativo.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.