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"Il serbatoio di forza lavoro si esaurisce, non c’è antitesi giovani/anziani"

(Photo: Pierpaolo ScavuzzoPierpaolo Scavuzzo / AGF)
(Photo: Pierpaolo ScavuzzoPierpaolo Scavuzzo / AGF)

Alla metà del prossimo decennio, nel 2035, potrebbero esserci in Italia poco più di 5 milioni di persone in meno in età lavorativa (convenzionalmente dai 15 ai 64 anni) secondo le proiezioni dell’Istat. Come se sparissero tre grandi città come Roma, Milano e Napoli. Colpa della progressiva fuoriuscita dei baby boomers dal mondo del lavoro: una gran parte dei nati nel dopoguerra è già passata alla pensione ed entro nove anni, nel 2030, praticamente tutti coloro che sono catalogati in questo cluster (nati tra il 1946 e il 1970) avranno abbandonato la fascia d’età che si accompagna al lavoro attivo. Dietro le generazioni del dopoguerra - protagoniste di una rivoluzione culturale ampia e profonda della cultura italiana, culminata nel mitico “68”, e per questo altrettanto amate o disprezzate a seconda del punto di vista ideologico, e negli ultimi anni accusate dai più giovani di occupare tutte le posizioni di potere – non c’è però lo stesso numero di persone. E quindi il declino sia della popolazione che degli individui in età del lavoro non è la previsione di un indovino, ma un esito già scritto nel Libro del Numeri.

Tuttavia gli effetti di questo crollo destano preoccupazione. Avremo anche un buco nell’occupazione? E quindi varrà l’equazione meno popolazione in età attiva-meno lavoratori-meno ricchezza prodotta? Detto in soldoni, diventeremo più poveri? “Il rischio che calino gli occupati in effetti c’è”, spiega in questa intervista il presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo. “Non c’è alcun dubbio che il serbatoio di forza lavoro attiva si stia esaurendo. Le coorti nate nel primo decennio del dopoguerra sono già uscite dalla fascia di età lavorativa e, alle regole attuali, vi rimangono ancora quella nate fra il 1955 e il 1970, anno in cui la spinta che ha portato a superare il milione di nati nel biennio 1964-1965 si era già esaurita, ma già oggi queste coorti sono ormai una quota marginale degli occupati. Ma è anche vero che ci sono altri elementi, dentro e fuori dalle forze lavoro, che potrebbero contrastare gli effetti di questo declino, in futuro”.

IL DECLINO DELLA POPOLAZIONE IN ETÀ LAVORATIVA (Photo: ..)
IL DECLINO DELLA POPOLAZIONE IN ETÀ LAVORATIVA (Photo: ..)

Cosa potrebbe dunque contrastare questo trend?

Molte cose. Ma prima di parlare dei nuovi soggetti che potrebbero entrare nel mondo del lavoro per agire contro questo calo, bisogna vedere come si evolverà il sistema produttivo. La tecnologia di certo spinge già – con la rivoluzione sempre più pervasiva dei robot e dell’informatica – verso una potente riduzione della forza lavoro.

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Le imprese hanno anche una grande attenzione ai costi più che agli investimenti. Così per questo motivo quando possono mandano via i lavoratori in prepensionamento. Nel settore privato arrivare a 60 anni è raro per un dipendente.

Con una demografia come questa non è sostenibile che le imprese mandino il proprio personale via a 55-60 anni. Una soluzione, invece, sarebbe quella di mantenere i lavoratori più anziani aggiornati con programmi di formazione continua. L’interscambio fra le generazioni è un valore importante, che viene perduto con i prepensionamenti, i quali creano una brusca cesura. E non è vero, come spesso si dice, che per ogni anziano che se ne va si libera un posto per un giovane. La verità è che non c’è contrapposizione tra giovani e anziani, come invece molti hanno fatto e fanno credere: possono e anzi devono convivere.

C’è troppa facilità da parte delle imprese nel mandar via gli “anziani”, lei dice. Forse è colpa di una legislazione che li aiuta?

Non so dire se, e in che misura, sia colpa della legislazione. So soltanto che ci sono troppe uscite anticipate. E a questo si dovrebbe trovare un rimedio.

Tra i fattori che spingono verso una caduta dell’occupazione in Italia c’è anche la fuga dei cervelli: ogni anno se ne vanno dall’Italia decine di migliaia di giovani preparati o con la laurea o con altre specializzazioni richieste. Anche questo drena risorse umane, e anche molto importanti, dal mercato del lavoro.

La fuga dei giovani deriva dal fatto che s’impegnano molto per raggiungere i risultati accademici o specialistici, ma poi non sempre sono in grado di ottenere gratificazioni da parte del sistema produttivo.

Scusi ma l’impressione è che in Italia nessuno guadagni più tanto. Forse non girano abbastanza soldi nell’economia e le imprese si adeguano al ribasso. Gli stipendi dei neolaureati sono in Italia inferiori anche di alcune volte rispetto agli altri Paesi avanzati dell’Europa e del mondo.

Non c’è dubbio. Le imprese però dovrebbero capire che se c’è un bravo ingegnere, tanto per fare un esempio, non dovrebbero pagarlo meno dei concorrenti stranieri. Non c’è un sistema del mercato del lavoro che premi il merito. Così mentre una parte dei più capaci emigra, un’altra accetta condizioni che forse non ritiene adeguate, anche se prende un posto di lavoro perché tutto sommato gli piace ciò che fa e si accontenta. Ma così non va bene. Indubbiamente c’è spazio per migliorare le politiche d’inserimento dei giovani.

Lei parla di un possibile calo della popolazione in età lavorativa di circa 5 milioni di persone da qui al 2035. Come ci si arriva?

Intanto va detto che questo è lo scenario peggiore. Ce ne sono anche altri due, uno mediano e un altro diciamo più ottimista. Comunque, al primo gennaio 2021 c’erano 37.770.000 persone in età lavorativa, tra 15 e 64 anni. Da qui al primo gennaio 2030, cioè fra poco più di otto anni, saremo scesi a circa 35,4 milioni secondo lo scenario intermedio, con una perdita di quasi 2,4 milioni. Poi dal 2030 al 2050 questo trend accelera con la sparizione di una media di circa 350 mila persone all’anno dalla potenziale forza lavoro.

Tuttavia, lei ha detto, c’è speranza che il numero degli occupati non cali, nonostante tutto. Ci spieghi perché.

Gli elementi in grado di compensare la minore vitalità della demografia italiana sono diversi. Ad esempio, da noi lavorano ancora poche donne: è lecito immaginarsi che la loro quota possa aumentare, possibilmente con politiche di conciliazione tra lavoro e famiglia. Inoltre, non dimentichiamo che l’età di pensionamento è mobile: la legge prevede che a certe condizioni si possa aumentare quando aumenta la speranza di vita. Sì, certo, il Covid ha agito in contrapposizione a questo trend ma contiamo tutti sul fatto che questo sia stato soltanto un intermezzo e che si riprenderà presto con la tendenza di crescita nei prossimi anni. Quindi l’età di pensionamento potrà allungarsi ancora. Inoltre, se è vero che si accrescerà il lavoro svolto dai robot e dall’intelligenza artificiale, è anche vero che ci sarà bisogno per questo stesso motivo di nuove figure professionali.

E gli immigrati?

Anche loro, ovviamente, possono contrastare la tendenza alla diminuzione della forza lavoro e dell’occupazione.

Però in Italia ci sono forze politiche che hanno fatto della lotta agli immigrati una delle loro più potenti parole d’ordine, creando un clima sfavorevole al loro arrivo e soprattutto alla loro accettazione da parte della popolazione italiana.

Al di là delle strumentalizzazioni politiche, ritengo che l’immigrazione sia molto importante per l’Italia e andrebbe incentivata. E credo anche che ci sia una buona disposizione da parte di tutte le forze politiche verso un’immigrazione regolamentata che risponda alle esigenze del mercato del lavoro.

Abbiamo parlato solo di persone in età lavorativa e di occupazione ma di quanto scenderanno gli abitanti dell’Italia?

Anche qui ci sono tre scenari possibili e non dobbiamo dimenticare che le previsioni a lungo termine sono soggette a modifiche anche importanti perché gli scenari possono cambiare. Comunque, all’1/1/2021 abbiamo 59.258.000 residenti. All’1/1/2041, fra vent’anni, la popolazione potrebbe essere scesa fino a un minimo di 53.600.000 unità (55.300.000 è lo scenario centrale e dato come più verosimile). Stiamo parlando, come lei vede, della possibilità che ci siano, nel caso peggiore, circa 6 milioni di persone in meno in un ventennio. Se poi ci spingiamo al 2051, le proiezioni meno rosee potrebbero vedere la popolazione crollare fino a 49 milioni.

Abbiamo visto le forze che possono contrastare la denatalità, che a sua volta ha effetti a catena sulla popolazione in età lavorativa. Fra queste, però, non ha considerato la possibilità di politiche che possano agevolare la natalità.

Rialzare la natalità è certo un obiettivo, ma ci vogliono decenni perché questa abbia un effetto sul mercato del lavoro. Nell’immediato occorre agire sugli altri fattori che sono più entro il nostro raggio d’azione e possono dare risultati in tempi brevi.

Questo articolo è originariamente apparso su L'HuffPost ed è stato aggiornato.