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Innovazione: fra fughe di cervelli e occasioni mancate, l'Italia è sedicesima nell’UE

Eravamo il Paese dell’innovazione. Cinquant’anni fa – negli anni del boom – l’Italia era, in Europa e nel mondo, uno dei Paesi all’avanguardia nell’innovazione. Se sulle macerie del dopoguerra fu costruito il “miracolo italiano”, il merito fu soprattutto di un tessuto imprenditoriale capace di valorizzarlo. Mezzo secolo dopo, dai dati dell’Innovation Union Scoreboard 2013 emerge in maniera evidente come, nel nostro Paese, si stia allargando sempre di più la forbice fra il capitale umano a disposizione e le azioni concrete (del settore pubblico e/o privato) tese a valorizzarlo.

Il rapporto analizza 25 indicatori (brevetti depositati, scienziati e ricercatori occupati, spese riservate alla ricerca, pubblicazioni scientifiche, collaborazioni tra imprese e altri indicatori del processo d'innovazione) utili a comprendere quanto, i vari Stati, stiano facendo per raggiungere gli obiettivi di innovazione e competitività di Europa 2020.

Sedicesima nel ranking dell’Europa dei 27, l’Italia fa meglio di Spagna e Portogallo, ma peggio, per esempio, di Estonia, Cipro e Slovenia. La classifica è guidata dalla Germania e tutti gli altri “big” dell’UE ci sono davanti, ma più dei dati complessivi sono i numeri che entrano nel merito dei singoli aspetti a rappresentare la radiografia dello stato di salute dell’innovazione in Italia.

Dal 2011 al 2012 l’Europa nel suo complesso è migliorata in termini di performance, ma continua a inseguire Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud. Una delle grandi occasioni mancate del nostro Paese è stata la digitalizzazione dei settori pubblico e industriale. Nei primi anni Novanta l’Italia era all’avanguardia nelle telecomunicazioni, tutti ci copiavano. Tanto per fare un esempio l’Unione Sarda nel 1994 è stato uno dei primi notiziari online del mondo, agli albori di Internet.

Il digital divide di chi era leader a livello continentale non è l’unica piaga da risanare. Proprio in tempo di crisi quando si dovrebbe investire in ricerca e sviluppo, l’Italia riserva a queste voci di spesa soltanto l’1,3% del proprio PIL a fronte di un 2% di media europea e di un 3% dei Paesi leader.

I dottori in ricerca crescono (+ 7,5%), così come crescono i ragazzi extra-europei che scelgono l’Italia come meta del proprio dottorato (+16%), ma allo stesso tempo la popolazione italiana ha un livello di educazione terziaria che si attesta intorno al 12%, 10 punti percentuali al di sotto della media europea. Da segnalare anche un +5,2% di pubblicazioni scientifiche internazionali firmate da italiani, soprattutto grazie ai cervelli in fuga. Da questi dati emerge chiaramente come l’Italia, in calo dal punto di vista quantitativo delle lauree, sia in crescita in tutti gli indici riguardanti la qualità della ricerca universitaria. Le nuove leve, insomma, sono preparate ma si devono confrontare con un mercato del lavoro chiuso, incapace di rinnovarsi investendo nei giovani.

I sistemi imprenditoriale, finanziario e pubblico non sono più in grado di sostenere gli investimenti, né di iniziare un percorso che crei canali di comunicazione fra università e imprese, atenei e mondo del lavoro. Il venture capital (ovvero il capitale di rischio per finanziare una start up a elevato potenziale di sviluppo) è calato dell’8,2%, così come è sceso dello 0,4% il livello di occupazione per i profili ad alto valore aggiunto

Anche nella gestione delle risorse umane si vede la capacità di (ri)pensare la propria economia. Non è più tempo di miracoli economici, ma l’Italia ha tutte le carte in regola per giocare un ruolo preminente nell’Europa dei 27. I capitali non sono soltanto finanziari, ma umani. E i cervelli in fuga sono debiti che non si trovano nei bilanci, ma che impoveriscono invisibilmente l’economia di un Paese.